Il Padiglione Vaticano a Venezia, per scoprire "LO SGUARDO DI DIO"
Si è discusso molto sulla
decisione della Santa Sede di collocare il Padiglione Vaticano
della Biennale di Venezia all'interno del carcere
femminile della Giudecca, facendo delle detenute le protagoniste dell'opera
d'arte. Il progetto dal titolo “Con i miei occhi” apre
prospettive inedite sulle dinamiche sociali e artistiche, sfidando pregiudizi e
convenzioni, riflettendo sulle strutture di potere nell’arte e nelle
istituzioni.
“Il visitatore - spiega il curatore Bruno Racine - è invitato a immergersi in questa esperienza poetica
intensa, privato dei suoi dispositivi digitali e guidato da detenute formate,
affrontando così un viaggio che sfida preconcetti e apre nuove prospettive
sull'arte come mezzo di espressione e connessione umana”.
Se l'arte è sempre più "parte di un vasto progetto mondiale di intrattenimento e distrazione", ci auguriamo che nella prigione "le possa essere restituito il suo potere trasformativo".
Personalmente, considero
questa scelta un'intuizione profetica che restituisce all'arte il suo luogo più
autentico: la vita dell'uomo, con tutte le sue contraddizioni. Essa ci offre
un'opportunità preziosa per riflettere sul modo in cui gli uomini guardano la
realtà e su come invece la guarda Dio.
Se dovessi azzardare a
dire qualcosa sullo sguardo di Dio vorrei partire proprio da
un'immagine poco conosciuta ma davvero
straordinaria dell’illustratrice Kristi Valiant dal titolo “Il figlio prodigo”.
“Il figlio prodigo” di Kristi Valiant (Evansville, Indiana, Usa).
È un'opera commovente che parla di un amore così incondizionato da vedere oltre il degrado e gli errori: quando il Padre ci perdona e ci abbraccia, per quanto possiamo aver deturpato la nostra bellezza, Lui rivede in noi la nostra purezza di bambini, riconosce in noi una bellezza originaria e immutabile che gli altri uomini quasi sempre non riescono più a vedere. L'amore del Padre non si limita a perdonare, ma 'ricorda' chi eravamo nel nostro stato più puro, riconoscendo quella scintilla di bontà e innocenza. Questo è reso visivamente nell'opera attraverso una potente intuizione poetica: l'ombra del figlio ormai adulto non riflette la sua figura attuale, ma quella di quando era bambino. Per me, padre di quattro figli ancora piccoli, l’immedesimazione in questa immagine è particolarmente intensa e toccante.
Gli uomini vedono
l’apparenza, i segni degli errori, mentre Dio vede l'essenza, l'innocenza che
non si corrompe mai davvero; il Suo è uno sguardo compassionevole, empatico e
misericordioso, uno sguardo capace di guardare oltre le ferite che ci
infliggiamo nel corso della vita. Il perdono divino non si limita ad
accogliere, ma permette un ritorno alla condizione originaria di purezza e
integrità.
Il merito più grande di
questa illustrazione a mio avviso è proprio l'invito universale alla
redenzione che porta alla riscoperta del vero sé, libero dai pesi degli errori;
un invito a riconnettersi con quella purezza che risiede in profondità in
ciascuno di noi, anche quando il mondo esterno vede solo le cicatrici come
spiega con chiarezza la favola delle due bisacce: Esopo descrive la condizione umana con la metafora di
due bisacce che ognuno porta con sé, una davanti, colma dei difetti altrui, e
una dietro, nascosta alla vista, contenente i propri difetti. Così, gli uomini
vedono con estrema chiarezza le mancanze degli altri, mentre restano ciechi di
fronte ai propri errori, relegati in quella bisaccia che non riescono a
osservare.
Potrebbe sembrare
antidemocratico e discriminatorio, ma le basi della nostra vita non sono frutto
di una scelta. Non scegliamo dove nascere né i genitori che ci danno la vita;
non decidiamo le doti con cui veniamo al mondo, né i pesi che dovremo portare.
L'uomo è inscindibile dalla sua storia, dal suo vissuto, dalla sua struttura
psichica e dal contesto in cui si trova. Non tutti riceviamo la stessa misura,
e a ciascuno sarà chiesto qualcosa di diverso.
È sconcertante quanta
confusione e superficialità emergano quando si parla di merito. Una cultura del
merito fraintesa ci porta a credere che il successo e la realizzazione
dipendano esclusivamente dai nostri sforzi. Ma sappiamo bene che non è così.
Questo equivoco ha conseguenze gravissime: non solo ci spinge a disprezzare chi
porta pesi di cui non ha alcuna responsabilità, ma ci induce persino a vantarci
di cose per le quali dovremmo inginocchiarci, ringraziando Dio.
Nella canzone La città
vecchia, Fabrizio De André racconta frammenti di vita di quel popolo
dimenticato che abita le aree malfamate vicino al porto di Genova: gli ubriachi
che affogano i loro dolori nel vino, le prostitute e i loro clienti, i ladri,
gli assassini, e «il tipo strano che ha venduto per tremila lire sua madre a un
nano». La canzone si chiude con versi di profonda riflessione:
«Se tu penserai, se
giudicherai da buon borghese
li condannerai a cinquemila
anni più le spese.
Ma se capirai, se li
cercherai fino in fondo,
se non sono gigli, son
pur sempre figli, vittime di questo mondo».
De André offre un
meraviglioso invito laico a non giudicare, a guardare oltre le apparenze
superficiali e cercare l’uomo nel profondo. Commentando la canzone, lo stesso
De André affermava: «Io credo che gli uomini agiscano certe volte
indipendentemente dalla loro volontà. Certi atteggiamenti, certi comportamenti
sono imperscrutabili. La psicologia ha fatto molto, la psichiatria forse ancora
di più, ma dell'uomo non sappiamo ancora nulla. A volte ci sono comportamenti
anomali che non riusciamo a spiegare. Per questo ho sempre pensato che ci sia
ben poco merito nella virtù e poca colpa nell'errore».
La sua canzone è un monito rivolto agli ipocriti, ai benpensanti, ai moralisti sempre pronti a puntare il dito. È dedicata a chi si erge a giudice della vita altrui senza conoscerne le sofferenze profonde, il vissuto e il peso delle circostanze. È un messaggio per coloro che parlano di "pecore nere", dando per scontato di appartenere al gregge delle pecore bianche. Perdiamo la nostra umanità quando smettiamo di riconoscerla negli altri; quanto è importante entrare nel mistero dell’essere umano, nella complessità di ogni uomo, senza tralasciare nulla. Se non riconosciamo la nostra miseria, non potremo mai provare misericordia verso la miseria degli altri; se non ci sentiamo perdonati e bisognosi di perdono, non saremo mai in grado di perdonare.
A proposito delle catene
di odio e inimicizia, mi ha colpito la testimonianza di un giudice penale:
«Molto spesso vediamo le vittime di violenza tornare nelle stesse aule di
tribunale, questa volta come imputati, responsabili a loro volta di crimini
violenti». Quando passiamo davanti
a un carcere, ci fermiamo mai a pensare che anche noi avremmo potuto essere lì,
se solo le circostanze della nostra vita fossero state diverse? O ci limitiamo
a credere di essere migliori di quelle persone, convinti che si meritino il
loro destino? Magari credessimo davvero di non essere migliori di nessuno!
Forse è per questo che
Papa Francesco ha visitato i detenuti ben 18 volte e, per la stessa ragione, ha
voluto collocare il Padiglione Vaticano della Biennale di Venezia all'interno
del carcere femminile della Giudecca, portando l'arte e la cultura proprio in
un luogo dove si sperimentano le forme più dure di esclusione e privazione. Una
cosa è certa: tutti abbiamo bisogno di riscoprire questo nuovo Sguardo!
Non ci credete? Andiamo a vedere "Con i nostri occhi".
Francesco Astiaso Garcia