“Quando i mezzi pittorici si sono talmente affinati, talmente assottigliati che la loro capacità di espressione si esaurisce, è necessario tornare ai principi essenziali che hanno formato il linguaggio umano: il coraggio di ritornare alla purezza dei mezzi espressivi”
Avete taciuto abbastanza!
MIGRANTES: dedicato a chi attraversa il mare:
fragili gabbiani senza
porto né ali.
Ho dipinto questo quadro ispirato dalle forti parole di Santa Caterina
da Siena:
“Avete taciuto abbastanza. È ora di finirla di stare zitti! Gridate
con centomila lingue, io vedo che a forza di silenzio il mondo è marcito”.
Il silenzio che lei denuncia non è solo una mancanza di parole, ma una
complicità passiva di fronte al male e al decadimento delle coscienze.
Santa Caterina ci invita a "gridare con centomila lingue", a
diventare voci di cambiamento, a rompere il silenzio dell’indifferenza. Gridare
significa anche difendere la verità. Il mondo rischia di "marcire"
sotto il peso delle falsità e dell’inganno. Gridare significa riscoprire il
coraggio di vivere una vita piena di significato, di bellezza e di verità,
contrastando il nichilismo dilagante. Gridare, per Santa Caterina, è un atto rivoluzionario,
un dovere di chi ha ancora la forza di indignarsi e la volontà di cambiare.
Di fronte al marcire del mondo, mi colpisce il complice silenzio di troppi artisti senza più voce: chi griderà se gli artisti per primi tacciono, si adeguano, si rassegnano! In fondo chi è l'artista se non colui che esce dagli schemi, colui che sa liberarsi da peso della cultura dominante, che sa vivere in proprio rompendo con tutte le convenzioni, le ipocrisie, le gabbie di normalità che gravano come macigni su tutte le società.
Dice una meravigliosa canzone di Horacio Guarany:
"Se tace
il poeta, tace la vita, perché la vita stessa è tutta un canto. Che ne sarà
della vita, se chi canta non alza la sua voce nelle piazze per chi soffre, per
chi non ha alcuna ragione di essere condannato a vagare senza una coperta?"
Nel mondo odierno, questa voce è più necessaria che mai. Con le crescenti disuguaglianze, le migrazioni forzate, le guerre e le ingiustizie sociali, il "cantore" rappresenta chi ha la responsabilità morale di dare voce a chi non ce l'ha. Se tace, il mondo diventa muto, sordo al dolore e cieco di fronte alla sofferenza. Abbiamo bisogno urgente di "cantori", di cuori ardenti e spiriti vivi come Martin Luther King, Santa Caterina da Siena o Aleksey Navalny!
Gridiamo per non essere complici del decadimento del mondo.
Francesco Astiaso Garcia
"Siamo con voi nella notte"
Pochi
giorni fa, per il ventiquattresimo anno consecutivo, mi sono recato a Venezia
per visitare la Biennale d’Arte, quest'anno dal suggestivo titolo “Stranieri
Ovunque”. Tra tutte le mie dodici esperienze alla Biennale, posso affermare
senza esitazione che la visita al Padiglione della Santa Sede di quest’ultima
edizione, è stata quella che mi ha maggiormente coinvolto ed emozionato!
Molto si è discusso sulla decisione della Santa Sede di collocare il suo Padiglione all'interno del carcere femminile della Giudecca, una scelta tanto audace quanto simbolica. Il progetto, intitolato “Con i miei occhi”, ha trasformato le detenute nelle protagoniste dell'opera d'arte, offrendo una prospettiva rara e toccante sul tema della reclusione e dell'inclusione. Questa iniziativa non solo ha sfidato i pregiudizi comuni, ma ha anche evidenziato come l’arte possa essere uno strumento potente di redenzione e riflessione sociale.
“Il
visitatore - spiega il curatore Bruno Racine - è invitato a immergersi in
questa esperienza poetica intensa, privato dei suoi dispositivi digitali e
guidato da detenute formate, affrontando così un viaggio che sfida preconcetti
e apre nuove prospettive sull'arte come mezzo di espressione e connessione
umana”. Se
l'arte è sempre più "parte di un vasto progetto mondiale di
intrattenimento e distrazione", ci auguriamo che nella prigione "le
possa essere restituito il suo potere trasformativo".
Personalmente,
considero questa scelta un'intuizione profetica che restituisce
all'arte il suo luogo più autentico: la vita dell'uomo, con tutte le sue
contraddizioni.
Durante la visita al
carcere, siamo stati accolti in quegli spazi in cui le detenute vivono la loro
quotidianità. Tra questi, quello che mi ha colpito di più è stata la sezione
riservata alle madri con bambini sotto i sei anni. L’immagine è fortemente
contrastante e quasi surreale: scivoli e altalene, simboli di spensieratezza
infantile, si trovavano sotto l’ombra imponente delle alte mura di recinzione.
Non ho potuto far a meno
di pensare ai potenti versi della canzone “La città vecchia” di Fabrizio De
André, un meraviglioso invito laico a non giudicare: «Se tu penserai, se
giudicherai da buon borghese li condannerai a cinquemila anni più le spese. Ma
se capirai, se li cercherai fino in fondo, se non sono gigli, son pur sempre
figli, vittime di questo mondo».
Personalmente ho vissuto la visita in carcere come un invito a cercare l’uomo nel profondo, un'opportunità preziosa per riflettere sul modo in cui gli uomini guardano la realtà e su come invece la guarda Dio. Se dovessi azzardare a dire qualcosa sullo sguardo di Dio vorrei partire proprio da un'immagine poco conosciuta ma davvero straordinaria dell’illustratrice Kristi Valiant dal titolo “Il figlio prodigo”.
Il merito più grande di
questa illustrazione a mio avviso è proprio l'invito universale alla
redenzione che porta alla riscoperta del vero sé, libero dai pesi degli
errori; un invito a riconnettersi con quella purezza che risiede
in profondità in ciascuno di noi, anche quando il mondo esterno vede solo
le cicatrici.
Forse è per questo che
Papa Francesco ha visitato i detenuti ben 18 volte e, per la stessa ragione, ha
voluto collocare il Padiglione Vaticano della Biennale di Venezia all'interno
del carcere femminile della Giudecca, portando l'arte e la cultura proprio in
un luogo dove si sperimentano le forme più dure di esclusione e
privazione. Una cosa è certa: tutti abbiamo bisogno di riscoprire
questo nuovo Sguardo!
Non ci credete? Andate a
vedere "Con i vostri occhi".
Francesco Astiaso
Garcia
LA CRISI DEL DESIDERIO
Sono profondamente convinto che tutte le
crisi che stiamo vivendo in questa complessa fase storica rappresentino,
paradossalmente, una grande opportunità. Un’opportunità preziosa per riscoprire
il senso e la bellezza della nostra vita. Come affermava Victor Hugo: "Ciò
che fa notte dentro, può lasciarci le stelle." La notte, con la sua oscurità,
può giocare un ruolo decisivo nello svelare all’uomo le profondità della sua
stessa anima, richiamandolo alle radici della sua grandezza. È proprio nei
momenti di difficoltà che possiamo riscoprire le verità fondamentali della
nostra esistenza, ritrovando così quelle "stelle" interiori che
illuminano il cammino verso un’esistenza più autentica e ricca di significato.
Il desiderio, infatti, è il segno
tangibile della nostra mancanza di cielo, della nostalgia per una vita più
piena e completa che ogni essere umano avverte in sé. Non a caso, la parola
"desiderio" deriva dal latino "de-sidera", letteralmente
"mancanza di stelle". Questa mancanza ci spinge a cercare qualcosa di
più grande, qualcosa che trascenda l’ordinario e ci conduca verso l’Infinito.
Percepire questa mancanza è di vitale
importanza. La nostalgia di un’esistenza più piena e autentica ci ricorda che
nella nostra vita c'è qualcosa di fondamentale che non può essere colmato con
l'abbondanza materiale. La vera pienezza non si misura in beni, ma in
significati. Uno dei drammi più profondi della nostra epoca è la crisi del
desiderio: non solo la mancanza di desiderio, ma addirittura la perdita della
consapevolezza di questa nostra mancanza di cielo, per usare un ossimoro,
potremmo chiamarla "l'assenza della mancanza d'infinito". Questo
esprime con forza il paradosso del nostro tempo: non solo abbiamo perso il desiderio
di qualcosa di più grande, ma siamo persino inconsapevoli di questa perdita.
Non avvertiamo più il vuoto creato dalla mancanza di un orizzonte infinito,
quella tensione che un tempo ci spingeva a cercare significato e trascendenza.
È un’apatia che non ci priva solo della realizzazione, ma anche della capacità
di desiderarla.
Il problema della denatalità è solo uno
dei riflessi di questa mancanza di desiderio. La mancanza di aspirazione e
proiezione verso il futuro si riflette nella difficoltà sempre maggiore di
pensare ad una vita che vada oltre il nostro individualismo
immediato. Fare figli, dare vita, richiede una profonda intenzionalità, un
impegno verso qualcosa che ci trascende e che durerà ben oltre il nostro tempo.
Tuttavia, quando il desiderio di futuro e di pienezza si spegne, l'idea stessa
di generare una nuova vita perde di significato.
La denatalità, in questo senso, non è solo
un problema demografico o economico, ma una questione esistenziale e
spirituale. Essa riflette la crisi di un mondo che ha perso il contatto con la
propria mancanza di cielo, con il proprio bisogno di pienezza e di
trascendenza. Senza desiderio, senza quella spinta che ci porta a guardare
oltre noi stessi e ad aspirare a una vita più ricca di significato, siamo destinati
a rimanere intrappolati in un circolo vizioso di vuotezza e stagnazione.
Riconoscere questa mancanza, riscoprire il
desiderio come motore della nostra vita, potrebbe essere la chiave per
affrontare le grandi sfide del nostro tempo, verso una vita piena e
intenzionale, capace di una ritrovata creatività vivace, generativa e
partecipativa.
Il Censis ci ha recentemente descritti
come un "popolo di sonnambuli", un’espressione potente che fotografa
la condizione di apatia collettiva in cui sembriamo immersi. Ma come possiamo
risvegliarci da questo nostro torpore? Come scuoterci da un’indifferenza che ci
vede addormentati, proprio mentre gli eventi drammatici intorno a noi
dovrebbero tenerci ben svegli e all'erta?
È proprio qui che entrano in gioco gli artisti.
In fondo, qual è il vero senso del nostro
lavoro? Comporre musica, scrivere poesie, dipingere quadri: tutte attività
apparentemente belle ma non considerate "essenziali". Niente di più
sbagliato! Questo è il pregiudizio radicato nella società, un luogo comune che
riduce l’arte a semplice intrattenimento colto, un accessorio di lusso per chi
può permetterselo. Purtroppo, molto spesso sono proprio gli artisti a
perpetuare questo errore, autoescludendosi dalla dignità e dall’importanza che
li caratterizza.
Fino a quando vedremo l’artista come qualcuno incaricato di dipingere un quadro che si abbini alle nostre tende o al nostro divano, resteremo prigionieri di questo pregiudizio. Ma l'arte è molto di più di una decorazione. Come affermava Henry Miller: “L’arte non insegna nulla, tranne il senso della vita”.
Il contributo dei poeti e degli artisti è
fondamentale in questa prospettiva di risveglio del desiderio e della
motivazione. Come ricordava Antoine de Saint-Exupéry: “Se vuoi costruire una
nave, non radunare uomini per tagliare la legna e assegnare compiti. Insegna
loro la nostalgia del mare vasto e infinito”.
Ecco il cuore della questione: gli artisti
risvegliano in noi la nostalgia del vasto e dell’infinito, la sete di verità,
giustizia, senso e bellezza che alberga in ogni essere umano. Solo quando siamo
toccati da questa nostalgia profonda troviamo la motivazione per costruire la
nostra "barca" e affrontare le sfide immense che la storia ci impone.
L'animo umano è intrinsecamente abitato
dal desiderio di trascendere i propri limiti. La bellezza, con la sua fragile
ma potente presenza, diventa custode di questo desiderio irrinunciabile, un
anelito verso qualcosa di più grande, che l’arte riesce a risvegliare e
nutrire.
Francesco Astiaso Garcia
Alimentata da una spina elettrica, la cera, un tempo simbolo di calore e vita, viene derubata della sua essenza, è l'emblema di una modernità che ha perso il contatto con le sue radici: un oggetto nato per bruciare e illuminare diventa solo un simulacro.
DESPERTAD MORTALES, LEVANTAD LOS OJOS !
Oggi compio 41 anni, e le cose non vanno per niente bene!
Mi riferisco alla folle piega degli eventi che sta trascinando tutti verso un oscuro baratro! In risposta a questa follia generalizzata, ho deciso di dipingere 41 COLOMBE, un gesto simbolico, il mio modo di resistere al non senso e di cercare, attraverso l’arte, una luce che ci guidi verso un futuro migliore.
Il Censis ci ha recentemente descritti come un "popolo di sonnambuli" — un’espressione potente che fotografa la condizione di apatia collettiva in cui sembriamo immersi. Ma come possiamo risvegliarci da questo nostro torpore? Come scuoterci da un’indifferenza che ci vede addormentati, proprio mentre gli eventi drammatici intorno a noi dovrebbero tenerci ben svegli e all'erta?
UN POPOLO DI SONNAMBULI
Forse dormiamo perché abbiamo smarrito la speranza che le cose possano cambiare, e non crediamo più nella nostra capacità di influire sul cambiamento. Così restiamo in disparte, senza speranza né protesta, incapaci di rialzarci e di reagire. Quello di cui abbiamo bisogno è una scossa, una voce forte che ci richiami alla vita, che ci ispiri ad essere più creativi, intraprendenti, vivi.
Una voce come quella del mistico spagnolo Fray Luis de León: “DESPERTAD MORTALES, LEVANTAD LOS OJOS!” – “Svegliatevi, mortali, alzate gli occhi!”. Parole che risuonano oggi con una forza dirompente.
Alzare gli occhi significa non limitarsi a vedere ciò che è immediatamente davanti a noi, ma volgersi verso le vere priorità dell’esistenza umana. Significa riconoscere le ferite del mondo e rispondere con consapevolezza, solidarietà e azioni concrete. La nostra capacità di vedere davvero ciò che ci circonda sembra in declino: abbiamo perso lo sguardo contemplativo, quello capace di aprirci a una visione più ampia, capace di unire tutto e tutti, riconoscendo l’interconnessione profonda tra gli esseri umani e il loro destino comune.
Oggi siamo in grado di analizzare ogni cosa in modo microscopico, di scomporre il mondo nei suoi elementi più minuti, ma ci sfugge la capacità di cogliere i legami tra le miriadi di creature che popolano l’universo. Senza la luce che trascende la nostra comprensione materiale, vediamo il mondo solo attraverso il prisma del nostro stesso decadimento.
Il grido di Fray Luis è dunque un richiamo a risvegliarci dal torpore, dal vivere “a occhi chiusi”, anestetizzati dalla routine e dall’inerzia. È un appello a rinnovare la nostra coscienza, ad aprirci a una dimensione spirituale che richiede il coraggio di guardare in faccia la sofferenza altrui, e di rispondere con empatia e responsabilità, oltre le dinamiche ideologiche o gli steccati delle appartenenze. Oggi più che mai, è il momento di alzare lo sguardo oltre le divisioni e gli egoismi che ci frammentano, riscoprendo il valore della dignità umana.
In questo frangente cruciale, alzare gli occhi significa anche riscoprire la speranza, guardare oltre il pessimismo e la rassegnazione. Il risveglio non è solo una presa di coscienza, ma un atto di fiducia: fiducia che l’umanità possa ancora risollevarsi, guarire e trasformarsi, per costruire un futuro più giusto e più umano.
Ecco, questo è su per giù il desiderio che esprimerò quando stasera soffierò le 41 candeline.
Lo so ne manca qualcuna per arrivare a 41 ma non sono riuscito a caricarle tutto nel sito.
LO SGUARDO DI DIO
Molto si è discusso sulla decisione della Santa Sede di collocare il suo Padiglione all'interno del carcere femminile della Giudecca, una scelta tanto audace quanto simbolica. Il progetto, intitolato “Con i miei occhi”, ha trasformato le detenute nelle protagoniste dell'opera d'arte, offrendo una prospettiva rara e toccante sul tema della reclusione e dell'inclusione. Questa iniziativa non solo ha sfidato i pregiudizi comuni, ma ha anche evidenziato come l’arte possa essere uno strumento potente di redenzione e riflessione sociale. Attraverso gli occhi delle detenute, si aprono nuove prospettive sulle dinamiche di potere nell'arte e nelle istituzioni, mostrando la capacità di quest’ultime di agire come veicoli di liberazione interiore, anche negli spazi più limitanti.
“Il visitatore - spiega il curatore Bruno Racine - è invitato a immergersi in questa esperienza poetica intensa, privato dei suoi dispositivi digitali e guidato da detenute formate, affrontando così un viaggio che sfida preconcetti e apre nuove prospettive sull'arte come mezzo di espressione e connessione umana”.
Se l'arte è sempre più "parte di un vasto progetto mondiale di intrattenimento e distrazione", ci auguriamo che nella prigione "le possa essere restituito il suo potere trasformativo".
Personalmente, considero questa scelta un'intuizione profetica che restituisce all'arte il suo luogo più autentico: la vita dell'uomo, con tutte le sue contraddizioni. Essa ci offre un'opportunità preziosa per riflettere sul modo in cui gli uomini guardano la realtà e su come invece la guarda Dio.
Se dovessi azzardare a dire qualcosa sullo sguardo di Dio vorrei partire proprio da un'immagine poco conosciuta ma davvero straordinaria dell’illustratrice Kristi Valiant dal titolo “Il figlio prodigo”.
“Il figlio prodigo” di Kristi Valiant (Evansville, Indiana, Usa).
È un'opera commovente che parla di un amore così incondizionato da vedere oltre il degrado e gli errori: quando il Padre ci perdona e ci abbraccia, per quanto possiamo aver deturpato la nostra bellezza, Lui rivede in noi la nostra purezza di bambini, riconosce in noi una bellezza originaria e immutabile che gli altri uomini quasi sempre non riescono più a vedere. L'amore del Padre non si limita a perdonare, ma 'ricorda' chi eravamo nel nostro stato più puro, riconoscendo quella scintilla di bontà e innocenza. Questo è reso visivamente nell'opera attraverso una potente intuizione poetica: l'ombra del figlio ormai adulto non riflette la sua figura attuale, ma quella di quando era bambino. Per me, padre di quattro figli ancora piccoli, l’immedesimazione in questa immagine è particolarmente intensa e toccante.
Gli uomini vedono
l’apparenza, i segni degli errori, mentre Dio vede l'essenza, l'innocenza che
non si corrompe mai davvero; il Suo è uno sguardo compassionevole, empatico e
misericordioso, uno sguardo capace di guardare oltre le ferite che ci
infliggiamo nel corso della vita. Il perdono divino non si limita ad
accogliere, ma permette un ritorno alla condizione originaria di purezza e
integrità.
Il merito più grande di
questa illustrazione a mio avviso è proprio l'invito universale alla
redenzione che porta alla riscoperta del vero sé, libero dai pesi degli errori;
un invito a riconnettersi con quella purezza che risiede in profondità in
ciascuno di noi, anche quando il mondo esterno vede solo le cicatrici come
spiega con chiarezza la favola delle due bisacce: Esopo descrive la condizione umana con la metafora di
due bisacce che ognuno porta con sé, una davanti, colma dei difetti altrui, e
una dietro, nascosta alla vista, contenente i propri difetti. Così, gli uomini
vedono con estrema chiarezza le mancanze degli altri, mentre restano ciechi di
fronte ai propri errori, relegati in quella bisaccia che non riescono a
osservare.
Potrebbe sembrare
antidemocratico e discriminatorio, ma le basi della nostra vita non sono frutto
di una scelta. Non scegliamo dove nascere né i genitori che ci danno la vita;
non decidiamo le doti con cui veniamo al mondo, né i pesi che dovremo portare.
L'uomo è inscindibile dalla sua storia, dal suo vissuto, dalla sua struttura
psichica e dal contesto in cui si trova. Non tutti riceviamo la stessa misura,
e a ciascuno sarà chiesto qualcosa di diverso.
È sconcertante quanta
confusione e superficialità emergano quando si parla di merito. Una cultura del
merito fraintesa ci porta a credere che il successo e la realizzazione
dipendano esclusivamente dai nostri sforzi. Ma sappiamo bene che non è così.
Questo equivoco ha conseguenze gravissime: non solo ci spinge a disprezzare chi
porta pesi di cui non ha alcuna responsabilità, ma ci induce persino a vantarci
di cose per le quali dovremmo inginocchiarci, ringraziando Dio.
Nella canzone La città
vecchia, Fabrizio De André racconta frammenti di vita di quel popolo
dimenticato che abita le aree malfamate vicino al porto di Genova: gli ubriachi
che affogano i loro dolori nel vino, le prostitute e i loro clienti, i ladri,
gli assassini, e «il tipo strano che ha venduto per tremila lire sua madre a un
nano». La canzone si chiude con versi di profonda riflessione:
«Se tu penserai, se giudicherai da buon borghese li condannerai a cinquemila anni più le spese. Ma se capirai, se li cercherai fino in fondo, se non sono gigli, son pur sempre figli, vittime di questo mondo».
De André offre un
meraviglioso invito laico a non giudicare, a guardare oltre le apparenze
superficiali e cercare l’uomo nel profondo. Commentando la canzone, lo stesso
De André affermava: «Io credo che gli uomini agiscano certe volte
indipendentemente dalla loro volontà. Certi atteggiamenti, certi comportamenti
sono imperscrutabili. La psicologia ha fatto molto, la psichiatria forse ancora
di più, ma dell'uomo non sappiamo ancora nulla. A volte ci sono comportamenti
anomali che non riusciamo a spiegare. Per questo ho sempre pensato che ci sia
ben poco merito nella virtù e poca colpa nell'errore».
La sua canzone è un monito rivolto agli ipocriti, ai benpensanti, ai moralisti sempre pronti a puntare il dito. È dedicata a chi si erge a giudice della vita altrui senza conoscerne le sofferenze profonde, il vissuto e il peso delle circostanze. È un messaggio per coloro che parlano di "pecore nere", dando per scontato di appartenere al gregge delle pecore bianche. Perdiamo la nostra umanità quando smettiamo di riconoscerla negli altri; quanto è importante entrare nel mistero dell’essere umano, nella complessità di ogni uomo, senza tralasciare nulla. Se non riconosciamo la nostra miseria, non potremo mai provare misericordia verso la miseria degli altri; se non ci sentiamo perdonati e bisognosi di perdono, non saremo mai in grado di perdonare.
A proposito delle catene
di odio e inimicizia, mi ha colpito la testimonianza di un giudice penale:
«Molto spesso vediamo le vittime di violenza tornare nelle stesse aule di
tribunale, questa volta come imputati, responsabili a loro volta di crimini
violenti». Quando passiamo davanti
a un carcere, ci fermiamo mai a pensare che anche noi avremmo potuto essere lì,
se solo le circostanze della nostra vita fossero state diverse? O ci limitiamo
a credere di essere migliori di quelle persone, convinti che si meritino il
loro destino? Magari credessimo davvero di non essere migliori di nessuno!
Forse è per questo che
Papa Francesco ha visitato i detenuti ben 18 volte e, per la stessa ragione, ha
voluto collocare il Padiglione Vaticano della Biennale di Venezia all'interno
del carcere femminile della Giudecca, portando l'arte e la cultura proprio in
un luogo dove si sperimentano le forme più dure di esclusione e privazione. Una
cosa è certa: tutti abbiamo bisogno di riscoprire questo nuovo Sguardo!
Non ci credete? Andate a vedere "Con i vostri occhi".
Francesco Astiaso Garcia
A Kiko, con gratitudine!
La scelta di un giovane dipende dalla sua inclinazione, ma anche dalla fortuna di incontrare un grande maestro.(Rita Levi-Montalcini)
Ho deciso di realizzare questo disegno come omaggio personale a Kiko Arguello. Fino ad ora, non lo avevo mai ritratto, forse per evitare di alimentare quel culto della personalità a cui leader carismatici come lui inevitabilmente sono soggetti.
Tuttavia, non potevo più esimermi dal farlo, tanta è la gratitudine e l'affetto che nutro verso chi, per me, è stato ben più di un maestro d'arte: un secondo padre, che mi ha sostenuto nei momenti più difficili della mia adolescenza e giovinezza. Quanta pazienza ha avuto con me, il caro Kiko!
Con lui ho viaggiato e dipinto in ogni angolo del mondo. Come dimenticare le straordinarie esperienze vissute insieme a Roma, Varsavia, Shanghai, New York, Managua, Denver, Perugia, e in così tante altre città!
Ricordo con particolare affetto quando lo abbiamo aiutato a dipingere la Cattedrale di Madrid, in occasione del matrimonio del Principe Felipe, oggi Re di Spagna. Quanta vita, quanta quotidianità, quante storie che meriterebbero di essere raccontate! E quante lezioni preziose sarebbe bello condividere, per mantenere viva l’eredità che ci ha trasmesso.
Chissà, forse un giorno mi dedicherò a scrivere qualcosa. Per ora, voglio
condensare tutta questa ricchezza con le parole che ci hai ripetuto tante volte
e che continui a ricordarci: "Non deve essere la vita a servire l'arte, ma
l'arte a servire la vita".
Caro Kiko, spero davvero di riuscire a incarnare ciò che ci trasmetti ogni giorno con il tuo esempio!