LO SGUARDO DI DIO

Pochi giorni fa, per il ventiquattresimo anno consecutivo, mi sono recato a Venezia per visitare la Biennale d’Arte, dal suggestivo titolo “Stranieri Ovunque”. Posso affermare senza esitazione che il Padiglione della Santa Sede è stato quello che mi ha colpito e coinvolto maggiormente.
Molto si è discusso sulla decisione della Santa Sede di collocare il suo Padiglione all'interno del carcere femminile della Giudecca, una scelta tanto audace quanto simbolica. Il progetto, intitolato “Con i miei occhi”, ha trasformato le detenute nelle protagoniste dell'opera d'arte, offrendo una prospettiva rara e toccante sul tema della reclusione e dell'inclusione. Questa iniziativa non solo ha sfidato i pregiudizi comuni, ma ha anche evidenziato come l’arte possa essere uno strumento potente di redenzione e riflessione sociale. Attraverso gli occhi delle detenute, si aprono nuove prospettive sulle dinamiche di potere nell'arte e nelle istituzioni, mostrando la capacità di quest’ultime di agire come veicoli di liberazione interiore, anche negli spazi più limitanti.
“Il visitatore - spiega il curatore Bruno Racine - è invitato a immergersi in questa esperienza poetica intensa, privato dei suoi dispositivi digitali e guidato da detenute formate, affrontando così un viaggio che sfida preconcetti e apre nuove prospettive sull'arte come mezzo di espressione e connessione umana”.
Se l'arte è sempre più "parte di un vasto progetto mondiale di intrattenimento e distrazione", ci auguriamo che nella prigione "le possa essere restituito il suo potere trasformativo".
Personalmente, considero questa scelta un'intuizione profetica che restituisce all'arte il suo luogo più autentico: la vita dell'uomo, con tutte le sue contraddizioni. Essa ci offre un'opportunità preziosa per riflettere sul modo in cui gli uomini guardano la realtà e su come invece la guarda Dio.
Se dovessi azzardare a dire qualcosa sullo sguardo di Dio vorrei partire proprio da un'immagine poco conosciuta ma davvero straordinaria dell’illustratrice Kristi Valiant dal titolo Il figlio prodigo”.


  “Il figlio prodigo” di Kristi Valiant (Evansville, Indiana, Usa).


È un'opera commovente che parla di un amore così incondizionato da vedere oltre il degrado e gli errori: quando il Padre ci perdona e ci abbraccia, per quanto possiamo aver deturpato la nostra bellezza, Lui rivede in noi la nostra purezza di bambini, riconosce in noi una bellezza originaria e immutabile che gli altri uomini quasi sempre non riescono più a vedere. L'amore del Padre non si limita a perdonare, ma 'ricorda' chi eravamo nel nostro stato più puro, riconoscendo quella scintilla di bontà e innocenza. Questo è reso visivamente nell'opera attraverso una potente intuizione poetica: l'ombra del figlio ormai adulto non riflette la sua figura attuale, ma quella di quando era bambino. Per me, padre di quattro figli ancora piccoli, l’immedesimazione in questa immagine è particolarmente intensa e toccante.

Gli uomini vedono l’apparenza, i segni degli errori, mentre Dio vede l'essenza, l'innocenza che non si corrompe mai davvero; il Suo è uno sguardo compassionevole, empatico e misericordioso, uno sguardo capace di guardare oltre le ferite che ci infliggiamo nel corso della vita. Il perdono divino non si limita ad accogliere, ma permette un ritorno alla condizione originaria di purezza e integrità.

Il merito più grande di questa illustrazione a mio avviso è proprio l'invito universale alla redenzione che porta alla riscoperta del vero sé, libero dai pesi degli errori; un invito a riconnettersi con quella purezza che risiede in profondità in ciascuno di noi, anche quando il mondo esterno vede solo le cicatrici come spiega con chiarezza la favola delle due bisacce: Esopo descrive la condizione umana con la metafora di due bisacce che ognuno porta con sé, una davanti, colma dei difetti altrui, e una dietro, nascosta alla vista, contenente i propri difetti. Così, gli uomini vedono con estrema chiarezza le mancanze degli altri, mentre restano ciechi di fronte ai propri errori, relegati in quella bisaccia che non riescono a osservare.

Potrebbe sembrare antidemocratico e discriminatorio, ma le basi della nostra vita non sono frutto di una scelta. Non scegliamo dove nascere né i genitori che ci danno la vita; non decidiamo le doti con cui veniamo al mondo, né i pesi che dovremo portare. L'uomo è inscindibile dalla sua storia, dal suo vissuto, dalla sua struttura psichica e dal contesto in cui si trova. Non tutti riceviamo la stessa misura, e a ciascuno sarà chiesto qualcosa di diverso.

È sconcertante quanta confusione e superficialità emergano quando si parla di merito. Una cultura del merito fraintesa ci porta a credere che il successo e la realizzazione dipendano esclusivamente dai nostri sforzi. Ma sappiamo bene che non è così. Questo equivoco ha conseguenze gravissime: non solo ci spinge a disprezzare chi porta pesi di cui non ha alcuna responsabilità, ma ci induce persino a vantarci di cose per le quali dovremmo inginocchiarci, ringraziando Dio.

Nella canzone La città vecchia, Fabrizio De André racconta frammenti di vita di quel popolo dimenticato che abita le aree malfamate vicino al porto di Genova: gli ubriachi che affogano i loro dolori nel vino, le prostitute e i loro clienti, i ladri, gli assassini, e «il tipo strano che ha venduto per tremila lire sua madre a un nano». La canzone si chiude con versi di profonda riflessione:

«Se tu penserai, se giudicherai da buon borghese li condannerai a cinquemila anni più le spese. Ma se capirai, se li cercherai fino in fondo, se non sono gigli, son pur sempre figli, vittime di questo mondo».

De André offre un meraviglioso invito laico a non giudicare, a guardare oltre le apparenze superficiali e cercare l’uomo nel profondo. Commentando la canzone, lo stesso De André affermava: «Io credo che gli uomini agiscano certe volte indipendentemente dalla loro volontà. Certi atteggiamenti, certi comportamenti sono imperscrutabili. La psicologia ha fatto molto, la psichiatria forse ancora di più, ma dell'uomo non sappiamo ancora nulla. A volte ci sono comportamenti anomali che non riusciamo a spiegare. Per questo ho sempre pensato che ci sia ben poco merito nella virtù e poca colpa nell'errore».

La sua canzone è un monito rivolto agli ipocriti, ai benpensanti, ai moralisti sempre pronti a puntare il dito. È dedicata a chi si erge a giudice della vita altrui senza conoscerne le sofferenze profonde, il vissuto e il peso delle circostanze. È un messaggio per coloro che parlano di "pecore nere", dando per scontato di appartenere al gregge delle pecore bianche. Perdiamo la nostra umanità quando smettiamo di riconoscerla negli altri; quanto è importante entrare nel mistero dell’essere umano, nella complessità di ogni uomo, senza tralasciare nulla. Se non riconosciamo la nostra miseria, non potremo mai provare misericordia verso la miseria degli altri; se non ci sentiamo perdonati e bisognosi di perdono, non saremo mai in grado di perdonare.

A proposito delle catene di odio e inimicizia, mi ha colpito la testimonianza di un giudice penale: «Molto spesso vediamo le vittime di violenza tornare nelle stesse aule di tribunale, questa volta come imputati, responsabili a loro volta di crimini violenti». Quando passiamo davanti a un carcere, ci fermiamo mai a pensare che anche noi avremmo potuto essere lì, se solo le circostanze della nostra vita fossero state diverse? O ci limitiamo a credere di essere migliori di quelle persone, convinti che si meritino il loro destino? Magari credessimo davvero di non essere migliori di nessuno!

Forse è per questo che Papa Francesco ha visitato i detenuti ben 18 volte e, per la stessa ragione, ha voluto collocare il Padiglione Vaticano della Biennale di Venezia all'interno del carcere femminile della Giudecca, portando l'arte e la cultura proprio in un luogo dove si sperimentano le forme più dure di esclusione e privazione. Una cosa è certa: tutti abbiamo bisogno di riscoprire questo nuovo Sguardo!

Non ci credete? Andate a vedere "Con i vostri occhi".

Francesco Astiaso Garcia 



il Padiglione Vaticano della Biennale di Venezia




 


A Kiko, con gratitudine!

 La scelta di un giovane dipende dalla sua inclinazione, 
ma anche dalla fortuna di incontrare un grande maestro.
(Rita Levi-Montalcini)



Ho deciso di realizzare questo disegno come omaggio personale a Kiko Arguello. Fino ad ora, non lo avevo mai ritratto, forse per evitare di alimentare quel culto della personalità a cui leader carismatici come lui inevitabilmente sono soggetti.

Tuttavia, non potevo più esimermi dal farlo, tanta è la gratitudine e l'affetto che nutro verso chi, per me, è stato ben più di un maestro d'arte: un secondo padre, che mi ha sostenuto nei momenti più difficili della mia adolescenza e giovinezza. Quanta pazienza ha avuto con me, il caro Kiko!

Con lui ho viaggiato e dipinto in ogni angolo del mondo. Come dimenticare le straordinarie esperienze vissute insieme a Roma, Varsavia, Shanghai, New York, Managua, Denver, Perugia, e in così tante altre città!

Ricordo con particolare affetto quando lo abbiamo aiutato a dipingere la Cattedrale di Madrid, in occasione del matrimonio del Principe Felipe, oggi Re di Spagna. Quanta vita, quanta quotidianità, quante storie che meriterebbero di essere raccontate! E quante lezioni preziose sarebbe bello condividere, per mantenere viva l’eredità che ci ha trasmesso.

Chissà, forse un giorno mi dedicherò a scrivere qualcosa. Per ora, voglio condensare tutta questa ricchezza con le parole che ci hai ripetuto tante volte e che continui a ricordarci: "Non deve essere la vita a servire l'arte, ma l'arte a servire la vita".

Caro Kiko, spero davvero di riuscire a incarnare ciò che ci trasmetti ogni giorno con il tuo esempio!