CUORI UNITI: una storia tutta da scrivere

Ho scritto la bozza di un racconto di speranza e di pace,
è solo il canovaccio di una storia tutta da scrivere e da vivere.
Chissà...magari mi contatterà un regista per farci un film,
o in alternativa potrei scriverci un romanzo...Chissà, voi che dite?



"L'unico vero realista è il visionario" Federico Fellini


La storia inizia con la descrizione della quotidianità di un giovane russo di nome Alexei, che vive in una piccola città vicino al confine con l'Ucraina. Nonostante le tensioni politiche, ha sempre creduto nella pace e nell'unità tra i popoli, esprimendo le sue convinzioni, anche attraverso la poesia. Dai più è considerato un sognatore idealista, incapace di fare i conti con la realtà.

Dall'altra parte del confine, c'è Taras, un giovane ucraino appassionato di musica, che soffre di una grave malattia cardiaca. La sua unica speranza di sopravvivenza è un trapianto di cuore.

Malauguratamente, Alexei muore in un incidente d'auto, i suoi genitori, conoscendo i valori di loro figlio, decidono di donare il suo cuore oltre confine, nonostante la resistenza agguerrita della sorella Irina, che interpreta il gesto come un tradimento della patria. Il trapianto avviene con successo, e Taras inizia a recuperare. Mentre si riprende, scopre la storia di Alexei e inizia a sentire un legame profondo con il suo donatore. Decide di incontrare la famiglia di Alexei per ringraziarli personalmente. Taras intraprende allora un pericoloso viaggio che lo porterà a scoprire verità scomode dietro al drammatico conflitto in corso.

Il giovane Ucraino raggiunge la Russia profondamente cambiato; il rapporto tra Taras e la famiglia di Alexei si sviluppa lentamente, con momenti di incomprensione e riconciliazione che mostrano un processo di guarigione e costruzione della fiducia. La storia potrebbe esplorare le reazioni delle comunità intorno ai due giovani e come questo gesto di altruismo influisce sulle relazioni tra le persone di entrambi i paesi, dimostrando che inimicizia e pregiudizio possono essere superati attraverso atti di amore e solidarietà.

Il romanzo, potrebbe finire con un grande concerto di beneficenza organizzato da Taras nella sua città natale in forma clandestina, per raccogliere fondi per le vittime del conflitto e promuovere la pace tra le due nazioni. Nonostante la ferma opposizione delle autorità locali, la notizia del concerto intitolato "Cuori Uniti" si diffonde rapidamente sui social, attirando l'attenzione internazionale e raccogliendo adesioni tanto tra gli Ucraini quanto tra i Russi. 

Durante il concerto, Taras, racconta la sua storia al pubblico e suona una canzone speciale dedicata ad Alexei, una canzone ispirata ad una delle sue poesie.  Alla fine della serata, Taras e i genitori di Alexei salgono sul palco insieme, dimostrando che, nonostante tutto, la pace e la riconciliazione sono possibili. Il pubblico commosso, si unisce in un applauso di solidarietà, interrotto bruscamente dal suono delle sirene che annunciano l'ennesimo bombardamento, disperdendo freneticamente la folla, senza dissolvere però il messaggio di speranza donato da Taras ed Alexei: E' più realistico costruire la pace che pensare di eliminare l'altro.

Francesco Astiaso Garcia

“Arte.. un racconto interiore”

Mi fa piacere condividere questa intervista che mi hanno fatto qualche giorno fa per una Rassegna d’Arte. Essendo interamente trascritta da una conversazione a braccio è un po’ lunghetta, ma almeno è più vera e spontanea:

“Arte.. un racconto interiore” Isolina Mariotti

incontra l’artista Francesco Astiaso Garcia

 

E’ attratto da ogni aspetto, da ogni manifestazione della vita, Francesco Astiaso Garcia e le emozioni, che da queste arrivano, forti e intense per chi riesce a coglierne il senso vero insito in loro, le vive con passione e determinazione affidandole poi alla tela, quasi a dare maggior forza al sentimento. Quelle che nascono sono composizioni estremamente motivate dal suo essere artista, dall’amore per gli altri, per la vita, da un senso di appartenenza al mondo che non gli consente di guardare oltre, quando incontra i tremendi bisogni che l’umanità ha. E sono una testimonianza di se stesso, di ciÚ che lui coglie e vorrebbe trasformare in una unione armoniosa di tutte le forme, i pensieri, di tutti i contesti esistenti. E la sua anima? Lei guarda senza ansia il lavoro che lui sta facendo perchÈ sa che ha trovato lo scopo della sua vita e lo sta realizzando. Con costanza e con gioia profonda.

 


-Buongiorno Francesco, questo quindi è il tuo studio? In parte, vedendo i tuoi lavori lo avevo immaginato, colori chiari, spazioso.

Buongiorno, mi fa piacere ti piaccia. »

-Sì , ci si sente bene dentro. Anche tu avverti la stessa cosa penso, quando lavori.

Sì. Lo studio, per un artista, è molto importante perché è il rifugio dove siamo soli con i nostri pensieri, le nostre intuizioni, le nostre ricerche e, come dicevi tu, dove ci si deve sentire a proprio agio soprattutto, dove potersi raccogliere e, in qualche modo, separarsi dal mondo. Picasso diceva che l’arte è fatta di pienezza e restituzione. Pienezza nell’esperienza della vita, le letture, gli incontri, i viaggi. La restituzione nella creatività dell’artista quando produce. E lo studio è proprio lo spazio della restituzione.

Qui senti la mente libera di andare.

E’ vero, la mente può spaziare perché sono luoghi di creatività. E’ per questo che, come vedi, non ho voluto dare un ordine troppo preciso perché mi piace l’idea di un mio percorso un po’ caotico che lascia più spazio alla creatività. Uno spazio libero come la stanza di un bambino con i giochi. E anche un po’ in disordine.

-Passi molto tempo qui?

Ore e ore ogni settimana. Quasi tutti i pomeriggi. A volte anche qualche mattina.



-Hai avuto un cammino costante nel tuo lavoro o ti sei fermato facendo altro e poi sei  tornato?

Per ciò che riguarda la continuità è sempre stato lineare perché non ho mai interrotto per più di una settimana, sin da quando ho iniziato, da bambino quindi. Per quello che riguarda l’inquietudine, la ricerca di uno stile, di se stessi, della propria personalità lineare, invece, non lo è mai stato. Credo molto nell’arte come cammino di perenne ricerca, più che di una scelta. Quando parliamo del suo legame con il mercato è chiaro che tutto spinge verso una selettività, una linea riconoscibile e capisco che tutto ciò sia necessario in un determinato contesto però, questo, se parliamo di arte in senso pieno, di arte come specchio dell’anima, per quanto mi riguarda, può diventare anche un grande limite. Uno dei problemi che vedo in molti artisti, anche grandi artisti è che, seguendo questa via  poi, in qualche modo, rimangono lì, come intrappolati. Quindi penso sia fondamentale non avere una eccessiva linearità.

-Pensi sarebbe meglio non seguire quella modalità che ti fa riconoscere e alla quale tutti aspirano, tra l’altro?

Il mio professore diceva: “sei molto bravo nel figurativo, sei interessante quando sperimenti l’astratto, fai bene la scultura ma, devi scegliere. Come se il non farlo creasse un problema. I miei più grandi riferimenti, anche tra i contemporanei, sono personalità completamente libere da questo tipo di schemi. Nella dinamica commerciale economica e delle gallerie, invece, si deve avere uno stile proprio che ti fa riconoscere. Beh io, questo, lo condivido solo in parte.



-Pensiamo un attimo al momento in cui ci vestiamo la mattina. Non siamo noi a scegliere i colori, sono loro che scelgono noi secondo la nostra frequenza di quel momento e magari per un mese indossiamo sempre la stessa tonalità. Ad esempio il rosso. La gente, a quel punto, ti identificherà con quel colore. Poi all’improvviso tu cambi perché senti la necessità di indossare il verde e la gente dirà, “non lo riconosco era un altro il suo colore”. Ebbene sì, è vero, ma oggi il mio sentire è diverso. E anche il verde mi rappresenta. Rappresenta una parte di me che non è disgiunta dal tutto. E così è per ogni cosa.

Viviamo in un mondo dove regnano solo le etichette e le definizioni superficiali. Ghettizziamo le appartenenze religiose, intellettuali, politiche, i colori delle nostre sensibilità da tutti i punti di vista. Quello che sfugge a una facile definizione confonde, però lì c’è una grande ricchezza. Per un’anima eclettica come la mia è importante anche quel lavoro di sintesi tra le varie ricerche. Questi quadri che vedi in questa parete del mio studio, sono un esempio di sintesi, li chiamo neofigurativi. Una figurazione contemporanea che nasce dal classico.



-La usi soprattutto nei volti e nelle figure.

Sì e sono proprio il frutto del mio disordine. Io, come tutti, sono nato come pittore figurativo, riproducevo cavalli, una barca capovolta, ritratti di mia madre, il cielo tutto quello che vedevo. Crescendo, però, ho capito che la pittura è una libera espressione dell’anima. Non fermandoci al puro informale o all’astrazione, sarà possibile  far convivere anime anche contrastanti. Sono anni che cerco questa sintesi tra la pittura più libera, che segue una spinta dionisiaca e l’anima classica, non ridotta, però, alla ripetizione di un canone che può andar bene per una committenza o una Chiesa  dove c’è un discorso di base diverso. Ci sono dei momenti di caos totale ma, come dice Baudelaire, da una stella danzante esce fuori la luce più luminosa.








-Tu, a parte il lavoro artistico fai anche tanto nel campo sociale, mi sembra, vero?

Sono sempre stato attratto da tutto quello che riguarda l’umanità. Nel mio studio ho voluto scrivere una frase di Terenzio “Nulla di ciò che è umano mi è estraneo” perché? Perché qui si tocca un punto fondamentale che a volte mi mette anche un po’ in crisi nel senso che sono arrivato a rendermi conto che è molto più importante quello che si fa per le persone, che la stessa opera d’arte. I bisogni dell’uomo oggi sono tanti! Per anni ho vissuto per l’arte, dedicando la maggior parte del mio tempo, alla pittura. Vivevo nel mio studio, dipingevo di notte, non avevo orari.

-Cosa ti ha cambiato?

Viaggiando per il mondo continuavo a scoprire situazioni estreme di bisogno dell’umanità. Ho viaggiato in molti Paesi davvero poverissimi, dove manca anche l’essenziale a troppe persone.

-E quello che vedevi ti restava dentro?

Mi restava dentro, sì. Mi è restato dentro. Parlo di paesi come il Congo, il Ruanda, l’India, il Sud Est Asiatico, i paesi dell’America latina dove ho scoperto baraccopoli enormi. Uno degli incontri più sconvolgenti per me è stato quello con le suore di carità a Calcutta. Si prendevano cura dei lebbrosi con un amore, un’attenzione e una gioia incredibili. Negli stessi giorni leggevo scritti di Michelangelo Buonarroti che  nella sua vecchiaia scriveva dell’ansia di essere e di creare, delle insoddisfazioni e in fondo del vuoto anche dell’arte e mi colpiva e pensavo:” Io non sono certo Michelangelo, ma anche se arrivassi a esserlo, quest’uomo sta dicendo che l’arte non basta, che c’è tanta vanità dietro questa spinta creativa”,  e poi vedevo queste suore che nella carità di vivere, nella semplicità di gesti, di cura l’una verso l’altra avevano una luce, una bellezza, una trasparenza e spiritualità che mi attraeva immensamente. Tutto questo mi ha portato, alla fine, a ridimensionare l’arte in modo molto serio. Ho capito che non poteva più essere al primo posto, nella mia vita, come lo era stata in tutta la mia giovinezza. Questo è stato fondamentale e non solo il mio lavoro non ne ha poi sofferto; non solo non ne ha perso, ma ho visto che ne giovava di questa verità. Senza queste esperienze, di cui sto parlando così, solo a grandi linee, una persona come me non si sarebbe mai potuta sposare, stare con una sola donna. Avere dei figli! Impossibile. Io dovevo partire, girare il mondo, una famiglia sarebbe stata un peso enorme, significava diventare borghese, rinunciare ai miei sogni ma tutto questo mi stava rubando la parte migliore della vita.

Ho conosciuto grandissimi artisti, molti anche famosi, li andavo a trovare nella loro vecchiaia e nonostante l’ammirazione per le loro opere, non rimanevo coinvolto. Gente che parlava solo di se stessa, delle proprie mostre, dell’importanza del proprio lavoro. Uscendo mi dicevo, “spero di non diventare così”… ma i rischi li vedevo, io non ero molto diverso…ora mi sento un riscattato.



-Certo. Una presa di coscienza così importante si ripercuote sul lavoro e questo diventa più vero e rimanda qualcosa di più sentito a chi lo guarda.

Sì ne sono convinto. Anche per un’altra ragione. Cos’è che domina il mondo? Il denaro. Purtroppo. E il problema degli artisti è quasi sempre legato a questo perché il denaro e il mercato ne tiranneggiano la produzione. Dovrebbero fare quello che sentono, invece devono continuare a fare ciò che il mercato chiede, e cos’è che muove il mercato? le dinamiche ideologiche, i poteri dominanti. Per definizione l’artista dovrebbe essere fuori dagli schemi, rompere con le gabbie di normalità, le consuetudini, le ipocrisie e invece si ritrova a creare secondo le dinamiche di committenti quali le multinazionali, banche e gallerie. Io capisco che l’artista deve vivere. Vendere, mantenere una famiglia, riuscire a vivere con questo lavoro, è complicatissimo. Il mercato però va a deturpare profondamente quella che è l’opera di un artista. Siamo arrivati al punto che conta più la firma dell’opera. È una cosa drammatica perché tutte le operazioni commerciali, di marketing che girano intorno all’arte sono più importanti dell’arte stessa. Il valore dell’opera non lo sfioriamo nemmeno. Altro aspetto inquietante è che ci sono artisti che non realizzano più i loro lavori, li commissionano ai grandi artigiani. Questo porta alla mercificazione totale dell’arte…cosa rimane? Il brand appunto. E così si capisce che è solo una questione di speculazione. Questo fa comprendere in quali tempi stiamo vivendo e quanto sia malato il mercato. Come rompere questa dinamica, come uscirne? E’ una delle sfide più grandi che ci aspetta oggi, non so se sei d’accordo.



-Sono d’accordo, assolutamente ma non penso che sia una sfida solo per gli artisti e che da soli, questi, possano cambiare questo stato di cose perché non avviene solo in ambito artistico, ma ovunque perciò, tutti dovrebbero riuscire a vedere ciò che sta succedendo  sentirsi coinvolti e responsabili, decisi a trovare una soluzione. Ormai da tempo anche la scienza ha abbracciato la teoria che la mente può influire su ciò che avviene. Se tutti noi invece di non voler pensare e di dire sì a tutto ciò che ci propongono, anche se sappiamo che non va bene, però ci fa comodo, perché alla fine è questo poi, no? Se  cominciassimo a dire basta forse qualcosa cambierebbe.

Mi ha colpito molto, di recente, un rapporto del Censis che definiva il popolo italiano un popolo di sonnambuli. Un tempo eravamo un popolo di eroi, di artisti, di poeti, di santi e navigatori, oggi siamo un popolo di sonnambuli.

Non ero a conoscenza di questo ma sono perfettamente d’accordo.

L’ho letto da poco e mi ha colpito enormemente. Insomma ci hanno detto che siamo in preda al torpore, ripiegati su noi stessi! In effetti mi chiedo come mai in un momento, forse il più buio degli ultimi ottant’anni, dove stiamo andando verso un declino inesorabile, invece di essere più svegli ed efficaci, siamo sempre più addormentati. La risposta che mi sono dato è che la gente non abbia più una grande speranza e anche lì dove la speranza ancora esiste forse pensa di non avere la capacità di influire sul cambiamento, in modo concreto.




-Sì è questo.

Io credo in questo. Il mare è fatto da tante piccole gocce che insieme diventano una potenza.

A proposito di mare mi viene in mente quella che dovrebbe essere la vera vocazione dell’artista. Gli artisti hanno il compito insostituibile di aiutarci ad alzare gli occhi risvegliando le coscienze. Diceva come monito tanti anni fa il mistico spagnolo Fra Luis De Leon, “svegliatevi mortali, alzate gli occhi!”. Sono parole di una attualità incredibile, ogni artista dovrebbe farle proprie. Henry Miller diceva che l’arte non insegna nulla tranne il senso della vita. Il nostro lavoro non è fare un quadro che si accordi con il colore del divano, deve risvegliare quel senso di pienezza, di ricerca di infinito, di spiritualità, quella vita divina dell’uomo che è fondamentale.

In una mia poesia scritta trent’anni fa avevo messo questa frase: “Uomo, la tua testa alza, le spalle. Tua è la vita…”. Trent’anni fa!

E’ ancora attualissima e se il Censis dice che oggi siamo un popolo di sonnambuli forse, oggi è ancora più attuale di ieri. E’ una sfida, questa, che l’artista riuscirà a vincere solo se riuscirà ad affrancarsi dalle dinamiche di cui parlavamo prima, e a condizione che non sia il primo soggiogato da politiche, ideologie e mercato, ma resti un uomo libero spiritualmente che cerca la dimensione divina dell’essere umano. E’ un ruolo meraviglioso quello che lo aspetta. Dice Antoine de Saint-Exupéry che cito spesso: “se vuoi costruire una barca non radunare uomini per tagliare legna, impartire ordini, dividere i compiti, ma risveglia in loro la nostalgia per il mare infinito”. Come dire che il segreto che ci porterà a realizzare il cambiamento sarà quella nostalgia di cielo e di verità, di amore per la vita che sentiamo. La barca la si costruirà per questo. Sarà una conseguenza del nostro sentire. Si inizia dalla motivazione per poi imbarcarsi e prendere il largo. Questo deve capire l’artista. Si tratta di salvare il senso della vita umana contro il caos, il nichilismo, l’individualismo che ti porta a vedere l’altro come una minaccia, un nemico. Dobbiamo unirci, non possiamo vivere sempre sulla difensiva. Dobbiamo abbracciare le questioni sociali, le ingiustizie, dare voce a chi non ha voce. Se non lo faremo noi artisti chi lo farà? Ma va fatto a trecentosessanta gradi per quel che mi riguarda, non si può difendere la vita nel grembo materno e poi disprezzare gli immigrati o di contro accogliere gli immigrati e non difendere la vita dal concepimento alla morte. Siamo al paradosso. A volte ho la terribile sensazione che la vita di un anziano morente, di un pazzo, di un africano, di un immigrato, di chi è sotto le bombe o di un feto ci interessa solo se quel meccanismo di protezione umana è ideologicamente affine al nostro pensiero.



-Perché devono strumentalizzare sempre tutto, cosa c’entrano le appartenenze politiche? I valori non sono di destra e nemmeno di sinistra, anche se tutti vogliono appropriarsene.

Lo so ma oggi è così. E’ drammatico. Per quel che mi riguarda io guardo in alto, né a destra, né a sinistra. Noi ci troviamo di fronte a forti contrapposizioni, da una parte un relativismo dilagante che mescola tutto, anche i valori e lo fa in modo spesso superficiale, buonista e ipocrita, dall’altra un sovranismo che sta tornando, di protezione della propria cultura, tradizione, che guarda l’altro come un diverso, un ostacolo, una minaccia. L’armonia è la scienza dell’arte che crea sintesi, dialoghi tra opposti. Questo facciamo quando dipingiamo. Tu da poeta, pittrice e scrittrice cosa fai quando componi qualcosa? Cosa fai con gli elementi tra loro discordanti, colori, forme, parole, suoni…li unisci in modo che non si disturbino e fai in modo che si valorizzino, facendo cantare ognuno la bellezza dell’altro. Questa è l’armonia. Pensa se noi riuscissimo a portare questo lavoro unificatore tra i popoli, gli stati, le culture e le religioni!  Oggi più che la pittura stessa, sono interessato alla diplomazia culturale perché credo sia una strada fondamentale per utilizzare il nostro talento artistico anche fuori dalla tela, dalla composizione musicale, dai versi e usarli come pretesti per favorire incontri.

In fondo sono davvero pretesti. Ogni cosa che noi facciamo è sempre tesa a qualcosa di più grande, qualcosa ancora da raggiungere e che, spesso inconsciamente, cerchiamo.

E’ vero e non soltanto. Da un punto di vista artistico…

No non solo, parlo dell’umanità, tutta l’umanità.

Sì giusto. Ed è fondamentale che sia così. Non può che essere così. Parlavo prima dei molti artisti chiusi in se stessi. La storia dell’arte in effetti è piena di esempi. Picasso stesso, un genio, eppure nella vita raccontano fosse attaccato al denaro, trattava male le donne, strumentalizzava la politica, un uomo  che non si può davvero prendere ad esempio… eppure, artisticamente, ne siamo ammirati. Come ti ho detto per me, prima ancora della pittura, c’è la vita. Il messaggio più bello che mi ha trasmesso il mio maestro di pittura Kiko Arguello è questo: “Non deve essere la vita a servire l’arte, ma l’arte a servire la vita”. Come dicevi tu, e vale per tutti, non solo per gli artisti, se abbiamo un dono non possiamo usarlo solo per noi stessi. Diventerebbe una dannazione. Perché è piena la storia di grandi artisti, uomini e donne, che alla fine hanno scelto il suicidio o l’autodistruzione?  Violeta Parra, Jim Morrison, Modigliani. Com’è possibile che così tanti di loro, si potrebbe dire benedetti da Dio, alla fine sono arrivati ad autodistruggersi a causa del loro stesso talento e sensibilità? Perché?

Un poeta diceva: “Ogni dono che Dio da all’uomo è accompagnato da una verga che come unico scopo ha l’autoflagellazione”. E’ vero. A volte si guardano le persone semplici con invidia. Mi è successo tante volte, nella mia giovinezza un po’ devastata di guardare queste persone e invidiarle perché riuscivano a gioire di poche cose ed erano più felici di me che stavo lì a cercare la risposta di chissà quale senso alla sofferenza umana.

-Tutto questo andrebbe insegnato. Nelle scuole, ai giovani. Io dico sempre: perché non insegnare loro a scendere dentro se stessi per conoscersi, per capire?

Educare significa tirare fuori da sé. Cos’è che possiamo tirare fuori dai ragazzi? Cosa puoi tirare fuori da loro se non sei il primo a tirare fuori quello che  hai e ciò che sei? Il maestro forse dovrebbe essere questo: una persona che si mette in gioco, nuda di fronte ai propri allievi.

Siamo abituati a usare spesso la parola buono, cosa vuol dire essere buono? Non ha senso quella parola. Ha senso essere giusti.

Sì perché la giustizia si lega alla verità. Quando vedo che nelle chiese in Russia  dipingono carri armati guidati da una rappresentazione di una Madonna patriottica, o vedo chi, con il rosario in mano, chiude senza pietà e distinzione le porte davanti alle persone che chiedono accoglienza e rifugio, rimango stravolto.

Stiamo vivendo tempi interessantissimi, drammatici da certi punti di vista ma la sfida per noi cristiani è enorme. Oggi possiamo avere un ruolo impressionante e se siamo anche artisti sapremo parlare di Dio in modo più convincente di chiunque altro. L’arte è lo splendore del vero, diceva Gaudì, e a me piace parlare dell’arte come di un déjà vù della creazione, perché quando un’opera d’arte esce fuori, risuona in profondità con le leggi che stanno fuori e dentro di noi, leggi che vanno oltre le mode soggettive e passeggere.




Non sono legate a cliscé.

No e neanche a un manifesto. Che tu faccia un’opera astratta o un quadro classico se sei un artista in quel quadro ci saranno le stesse armonie che ci sono in una conchiglia, nella ruggine, nella terra che si spacca e questo fa capire che la bellezza unisce tutto e tutti perché usa il linguaggio della creazione. E’ come una voce silenziosa presente in tutto l’universo che l’artista, dipingendo, in qualche modo ricrea, avvicinandosi a Dio. Diceva Giovanni Paolo II, l’artista è l’unico che capisce Dio all’alba della creazione.  Una delle definizioni più belle della bellezza  l’ha data Zichichi, lo scienziato: “La bellezza è la logica che noi decifriamo dallo studio delle leggi della natura” quindi non un manifesto intellettuale ma qualcosa di molto oggettivo ed è la voce silenziosa di cui parlavamo prima, che unisce le leggi dell’universo.

E’ qualcosa di naturale.

I greci studiavano la sezione aurea e scoprivano che dietro la conchiglia c’erano gli stessi numeri che poi ritrovavano nei movimenti dei semi di girasole e nelle costellazioni nel cielo.  Perché? Se siamo onesti dobbiamo riconoscere che l’artista attinge dalla natura, anche senza saperlo, perché ha in sé le stesse leggi. E questo è meraviglioso.

Tu hai una famiglia abbastanza numerosa, in questo tuo lavoro sono loro che sono venuti verso di te?

Mia moglie è un’artista, una musicista. Ci siamo conosciuti in Germania. Ci siamo trovati. E parliamo la stessa lingua perché lei è un’artista cristiana che ha vissuto esperienze molto simili alle mie. Perciò è stato davvero un trovarsi e abbiamo costruito una famiglia impostata proprio su questa comunione. E’ una cosa preziosissima. Insieme ci siamo aperti alla vita, abbiamo avuto quattro figli che sono uno spettacolo. Con loro passo ore e ore nel mio studio, da quando erano piccolissimi.

-Avete creato una dimensione unica.

Sì e tutto questo mi salva, certo mi leva tanto tempo, prima vivevo solo per l’arte adesso ovviamente faccio tante cose, anche troppe, a volte mi stanco, dormo pochissimo. C’è lo stesso fuoco e la stessa passione ma il tempo è di meno come l’energia e la possibilità di girare il mondo ma la famiglia viene prima delle mia pittura e delle mie aspirazioni ed è lei a dare senso alle rinunce. Forse non diventerò famoso ma ho capito che la fama può essere anche una dannazione. Non è che la disprezzo, ma non è certo lo scopo della mia vita.

-Se  rinunci a qualcosa, però, questo avviene comunque in armonia.

Esatto. Non vuol dire che sia tutto liscio e facile… ci sono difficoltà, crisi, combattimenti, la vita è un combattimento, sempre. Però combattendo la buona battaglia, tutti i sacrifici, quel poco sonno, quelle rinunce, che ti pesano, che non sono una passeggiata, trovano un senso enorme, perché sai che sei nel tuo cammino, nella tua storia che è, innanzi tutto,  provare ad essere, con tanti limiti, un buon marito, un buon padre… sapere che non puoi salvare il mondo con le tue forze e riconoscere la grande potenza dei doni che Dio ti ha dato per metterli a frutto. Credimi è una avventura appassionante. La vita è bellissima, ma sul serio. E io sono molto contento.

-Francesco c’è qualcosa che ti piacerebbe dire alle persone che leggeranno?

E’ una domanda impegnativa. Ma forse la cosa più importante e più banale allo stesso tempo è “Siate voi stessi”. Ma proprio perché banale è una verità comune. E’ comune ai cristiani, ai buddisti, è comune all’oriente: “Cerca te stesso, trova te stesso”.

-Via le maschere!

Sì via le maschere. Perché è troppo difficile essere autentici. Carlo Acutis, il ragazzo morto giovanissimo, che ora stanno beatificando, diceva ai suoi coetanei: ”Noi nasciamo originali ma poi tutti moriamo come fotocopie. Siate autentici!”. Era il suo invito. Noi siamo unici, forse non perfetti ma unici e nonostante le nostre fragilità, gli errori, le scelte sbagliate possiamo riprendere il filo della nostra autenticità senza paura di giudizi senza conformarci a ciò che dicono gli altri. Io riassumo sempre con un motto “Hasta la bellezza siempre” “fino alla bellezza sempre”, parafrasanso il Che Guevara ma andando oltre. Lui diceva “Hasta la victoria siempre” però non si può sempre vincere e a che prezzo poi. Quello che conta è l’amore. Quindi la vittoria no ma la bellezza è la verità, sempre.

Secondo me non c’è mai alcuna sconfitta perché una sconfitta può rivelarsi una vittoria se la si guarda da un punto di vista diverso e distaccato.

Sembra un paradosso ma è così. Per un cristiano lo è ancora di più. Noi seguiamo Gesù che è finito sulla croce. In un certo senso il più grande degli sconfitti. Ma Paolo dice “Quando siamo deboli, è allora che siamo potenti”. E’ un paradosso che ancora abbiamo poco capito. Grazie Isolina del tempo che mi hai dedicato. Se questa intervista diventa il pretesto per una chiamata a svegliarci, a capire che gli artisti hanno un ruolo fondamentale, a uscire dagli schemi, a incontrarci, a dialogare, il tempo che mi ha dedicato non è stato inutile!

Visita il sito: www.francescoastiaso.com

 


 


Ritornare alla Purezza

 “Quando i mezzi pittorici si sono talmente affinati, talmente assottigliati che la loro capacità di espressione si esaurisce, è necessario tornare ai principi essenziali che hanno formato il linguaggio umano: il coraggio di ritornare alla purezza dei mezzi espressivi”

Henri Matisse






Avete taciuto abbastanza!

MIGRANTES: dedicato a chi attraversa il mare: 

fragili gabbiani senza porto né ali.


Ho dipinto questo quadro ispirato dalle forti parole di Santa Caterina da Siena:

Avete taciuto abbastanza. È ora di finirla di stare zitti! Gridate con centomila lingue, io vedo che a forza di silenzio il mondo è marcito”.

Il silenzio che lei denuncia non è solo una mancanza di parole, ma una complicità passiva di fronte al male e al decadimento delle coscienze.

Santa Caterina ci invita a "gridare con centomila lingue", a diventare voci di cambiamento, a rompere il silenzio dell’indifferenza. Gridare significa anche difendere la verità. Il mondo rischia di "marcire" sotto il peso delle falsità e dell’inganno. Gridare significa riscoprire il coraggio di vivere una vita piena di significato, di bellezza e di verità, contrastando il nichilismo dilagante. Gridare, per Santa Caterina, è un atto rivoluzionario, un dovere di chi ha ancora la forza di indignarsi e la volontà di cambiare.

Di fronte al marcire del mondo, mi colpisce il complice silenzio di troppi artisti senza più voce: chi griderà se gli artisti per primi tacciono, si adeguano, si  rassegnano! In fondo chi è l'artista se non colui che esce dagli schemi, colui che sa liberarsi da peso della cultura dominante, che sa vivere in proprio rompendo con tutte le convenzioni, le ipocrisie, le gabbie di normalità che gravano come macigni su tutte le società. 

Dice una meravigliosa canzone di Horacio Guarany: 

"Se tace il poeta, tace la vita, perché la vita stessa è tutta un canto. Che ne sarà della vita, se chi canta non alza la sua voce nelle piazze per chi soffre, per chi non ha alcuna ragione di essere condannato a vagare senza una coperta?"

Nel mondo odierno, questa voce è più necessaria che mai. Con le crescenti disuguaglianze, le migrazioni forzate, le guerre e le ingiustizie sociali, il "cantore" rappresenta chi ha la responsabilità morale di dare voce a chi non ce l'ha. Se tace, il mondo diventa muto, sordo al dolore e cieco di fronte alla sofferenza. Abbiamo bisogno urgente di "cantori", di cuori ardenti e spiriti vivi come Martin Luther King, Santa Caterina da Siena o Aleksey Navalny!

Gridiamo per non essere complici del decadimento del mondo.

Francesco Astiaso Garcia

 

 

 

 

"Siamo con voi nella notte"

 


Pochi giorni fa, per il ventiquattresimo anno consecutivo, mi sono recato a Venezia per visitare la Biennale d’Arte, quest'anno dal suggestivo titolo “Stranieri Ovunque”. Tra tutte le mie dodici esperienze alla Biennale, posso affermare senza esitazione che la visita al Padiglione della Santa Sede di quest’ultima edizione, è stata quella che mi ha maggiormente coinvolto ed emozionato!

Molto si è discusso sulla decisione della Santa Sede di collocare il suo Padiglione all'interno del carcere femminile della Giudecca, una scelta tanto audace quanto simbolica. Il progetto, intitolato “Con i miei occhi”, ha trasformato le detenute nelle protagoniste dell'opera d'arte, offrendo una prospettiva rara e toccante sul tema della reclusione e dell'inclusione. Questa iniziativa non solo ha sfidato i pregiudizi comuni, ma ha anche evidenziato come l’arte possa essere uno strumento potente di redenzione e riflessione sociale.



“Il visitatore - spiega il curatore Bruno Racine - è invitato a immergersi in questa esperienza poetica intensa, privato dei suoi dispositivi digitali e guidato da detenute formate, affrontando così un viaggio che sfida preconcetti e apre nuove prospettive sull'arte come mezzo di espressione e connessione umana”. Se l'arte è sempre più "parte di un vasto progetto mondiale di intrattenimento e distrazione", ci auguriamo che nella prigione "le possa essere restituito il suo potere trasformativo".

Personalmente, considero questa scelta un'intuizione profetica che restituisce all'arte il suo luogo più autentico: la vita dell'uomo, con tutte le sue contraddizioni.

Durante la visita al carcere, siamo stati accolti in quegli spazi in cui le detenute vivono la loro quotidianità. Tra questi, quello che mi ha colpito di più è stata la sezione riservata alle madri con bambini sotto i sei anni. L’immagine è fortemente contrastante e quasi surreale: scivoli e altalene, simboli di spensieratezza infantile, si trovavano sotto l’ombra imponente delle alte mura di recinzione.

Non ho potuto far a meno di pensare ai potenti versi della canzone “La città vecchia” di Fabrizio De André, un meraviglioso invito laico a non giudicare: «Se tu penserai, se giudicherai da buon borghese li condannerai a cinquemila anni più le spese. Ma se capirai, se li cercherai fino in fondo, se non sono gigli, son pur sempre figli, vittime di questo mondo».

Personalmente ho vissuto la visita in carcere come un invito a cercare l’uomo nel profondo, un'opportunità preziosa per riflettere sul modo in cui gli uomini guardano la realtà e su come invece la guarda Dio. Se dovessi azzardare a dire qualcosa sullo sguardo di Dio vorrei partire proprio da un'immagine poco conosciuta ma davvero straordinaria dell’illustratrice Kristi Valiant dal titolo Il figlio prodigo”. 


È un'opera commovente che parla di
 un amore così incondizionato da vedere oltre il degrado e gli errori: quando il Padre ci perdona e ci abbraccia, per quanto possiamo aver deturpato la nostra bellezza, Lui rivede in noi la nostra purezza di bambini, riconosce in noi una bellezza originaria e immutabile che gli altri uomini quasi sempre non riescono più a vedere. L'amore del Padre non si limita a perdonare, ma 'ricorda' chi eravamo nel nostro stato più puro, riconoscendo quella scintilla di bontà e innocenza. Questo è reso visivamente nell'opera attraverso una potente intuizione poetica: l'ombra del figlio ormai adulto non riflette la sua figura attuale, ma quella di quando era bambino. Per me, padre di quattro figli ancora piccoli, l’immedesimazione in questa immagine è particolarmente intensa e toccante.

Il merito più grande di questa illustrazione a mio avviso è proprio l'invito universale alla redenzione che porta alla riscoperta del vero sé, libero dai pesi degli errori; un invito a riconnettersi con quella purezza che risiede in profondità in ciascuno di noi, anche quando il mondo esterno vede solo le cicatrici.

Forse è per questo che Papa Francesco ha visitato i detenuti ben 18 volte e, per la stessa ragione, ha voluto collocare il Padiglione Vaticano della Biennale di Venezia all'interno del carcere femminile della Giudecca, portando l'arte e la cultura proprio in un luogo dove si sperimentano le forme più dure di esclusione e privazione. Una cosa è certa: tutti abbiamo bisogno di riscoprire questo nuovo Sguardo!

Non ci credete? Andate a vedere "Con i vostri occhi".

Francesco Astiaso Garcia 

 

LA CRISI DEL DESIDERIO

Sono profondamente convinto che tutte le crisi che stiamo vivendo in questa complessa fase storica rappresentino, paradossalmente, una grande opportunità. Un’opportunità preziosa per riscoprire il senso e la bellezza della nostra vita. Come affermava Victor Hugo: "Ciò che fa notte dentro, può lasciarci le stelle." La notte, con la sua oscurità, può giocare un ruolo decisivo nello svelare all’uomo le profondità della sua stessa anima, richiamandolo alle radici della sua grandezza. È proprio nei momenti di difficoltà che possiamo riscoprire le verità fondamentali della nostra esistenza, ritrovando così quelle "stelle" interiori che illuminano il cammino verso un’esistenza più autentica e ricca di significato.

Il desiderio, infatti, è il segno tangibile della nostra mancanza di cielo, della nostalgia per una vita più piena e completa che ogni essere umano avverte in sé. Non a caso, la parola "desiderio" deriva dal latino "de-sidera", letteralmente "mancanza di stelle". Questa mancanza ci spinge a cercare qualcosa di più grande, qualcosa che trascenda l’ordinario e ci conduca verso l’Infinito.

Percepire questa mancanza è di vitale importanza. La nostalgia di un’esistenza più piena e autentica ci ricorda che nella nostra vita c'è qualcosa di fondamentale che non può essere colmato con l'abbondanza materiale. La vera pienezza non si misura in beni, ma in significati. Uno dei drammi più profondi della nostra epoca è la crisi del desiderio: non solo la mancanza di desiderio, ma addirittura la perdita della consapevolezza di questa nostra mancanza di cielo, per usare un ossimoro, potremmo chiamarla "l'assenza della mancanza d'infinito". Questo esprime con forza il paradosso del nostro tempo: non solo abbiamo perso il desiderio di qualcosa di più grande, ma siamo persino inconsapevoli di questa perdita. Non avvertiamo più il vuoto creato dalla mancanza di un orizzonte infinito, quella tensione che un tempo ci spingeva a cercare significato e trascendenza. È un’apatia che non ci priva solo della realizzazione, ma anche della capacità di desiderarla.

Il problema della denatalità è solo uno dei riflessi di questa mancanza di desiderio. La mancanza di aspirazione e proiezione verso il futuro si riflette nella difficoltà sempre maggiore di pensare ad una vita che vada oltre il nostro individualismo immediato. Fare figli, dare vita, richiede una profonda intenzionalità, un impegno verso qualcosa che ci trascende e che durerà ben oltre il nostro tempo. Tuttavia, quando il desiderio di futuro e di pienezza si spegne, l'idea stessa di generare una nuova vita perde di significato.

La denatalità, in questo senso, non è solo un problema demografico o economico, ma una questione esistenziale e spirituale. Essa riflette la crisi di un mondo che ha perso il contatto con la propria mancanza di cielo, con il proprio bisogno di pienezza e di trascendenza. Senza desiderio, senza quella spinta che ci porta a guardare oltre noi stessi e ad aspirare a una vita più ricca di significato, siamo destinati a rimanere intrappolati in un circolo vizioso di vuotezza e stagnazione.

Riconoscere questa mancanza, riscoprire il desiderio come motore della nostra vita, potrebbe essere la chiave per affrontare le grandi sfide del nostro tempo, verso una vita piena e intenzionale, capace di una ritrovata creatività vivace, generativa e partecipativa.

Il Censis ci ha recentemente descritti come un "popolo di sonnambuli", un’espressione potente che fotografa la condizione di apatia collettiva in cui sembriamo immersi. Ma come possiamo risvegliarci da questo nostro torpore? Come scuoterci da un’indifferenza che ci vede addormentati, proprio mentre gli eventi drammatici intorno a noi dovrebbero tenerci ben svegli e all'erta?

È proprio qui che entrano in gioco gli artisti.

In fondo, qual è il vero senso del nostro lavoro? Comporre musica, scrivere poesie, dipingere quadri: tutte attività apparentemente belle ma non considerate "essenziali". Niente di più sbagliato! Questo è il pregiudizio radicato nella società, un luogo comune che riduce l’arte a semplice intrattenimento colto, un accessorio di lusso per chi può permetterselo. Purtroppo, molto spesso sono proprio gli artisti a perpetuare questo errore, autoescludendosi dalla dignità e dall’importanza che li caratterizza.

Fino a quando vedremo l’artista come qualcuno incaricato di dipingere un quadro che si abbini alle nostre tende o al nostro divano, resteremo prigionieri di questo pregiudizio. Ma l'arte è molto di più di una decorazione. Come affermava Henry Miller: “L’arte non insegna nulla, tranne il senso della vita”.

Il contributo dei poeti e degli artisti è fondamentale in questa prospettiva di risveglio del desiderio e della motivazione. Come ricordava Antoine de Saint-Exupéry: “Se vuoi costruire una nave, non radunare uomini per tagliare la legna e assegnare compiti. Insegna loro la nostalgia del mare vasto e infinito”.

Ecco il cuore della questione: gli artisti risvegliano in noi la nostalgia del vasto e dell’infinito, la sete di verità, giustizia, senso e bellezza che alberga in ogni essere umano. Solo quando siamo toccati da questa nostalgia profonda troviamo la motivazione per costruire la nostra "barca" e affrontare le sfide immense che la storia ci impone.

L'animo umano è intrinsecamente abitato dal desiderio di trascendere i propri limiti. La bellezza, con la sua fragile ma potente presenza, diventa custode di questo desiderio irrinunciabile, un anelito verso qualcosa di più grande, che l’arte riesce a risvegliare e nutrire.

Francesco Astiaso Garcia



Francesco Astiaso Garcia ©


Alimentata da una spina elettrica, la cera, un tempo simbolo di calore e vita, viene derubata della sua essenza, è l'emblema di una modernità che ha perso il contatto con le sue radici: un oggetto nato per bruciare e illuminare diventa solo un simulacro. 

DESPERTAD MORTALES, LEVANTAD LOS OJOS !


Oggi compio 41 anni, e le cose non vanno per niente bene! 

Mi riferisco alla folle piega degli eventi che sta trascinando tutti verso un oscuro baratro! In risposta a questa follia generalizzata, ho deciso di dipingere 41 COLOMBE, un gesto simbolico, il mio modo di resistere al non senso e di cercare, attraverso l’arte, una luce che ci guidi verso un futuro migliore.

Il Censis ci ha recentemente descritti come un "popolo di sonnambuli" — un’espressione potente che fotografa la condizione di apatia collettiva in cui sembriamo immersi. Ma come possiamo risvegliarci da questo nostro torpore? Come scuoterci da un’indifferenza che ci vede addormentati, proprio mentre gli eventi drammatici intorno a noi dovrebbero tenerci ben svegli e all'erta?


UN POPOLO DI SONNAMBULI



Forse dormiamo perché abbiamo smarrito la speranza che le cose possano cambiare, e non crediamo più nella nostra capacità di influire sul cambiamento. Così restiamo in disparte, senza speranza né protesta, incapaci di rialzarci e di reagire. Quello di cui abbiamo bisogno è una scossa, una voce forte che ci richiami alla vita, che ci ispiri ad essere più creativi, intraprendenti, vivi.

Una voce come quella del mistico spagnolo Fray Luis de León: “DESPERTAD MORTALES, LEVANTAD LOS OJOS!” – “Svegliatevi, mortali, alzate gli occhi!”. Parole che risuonano oggi con una forza dirompente. 

Alzare gli occhi significa non limitarsi a vedere ciò che è immediatamente davanti a noi, ma volgersi verso le vere priorità dell’esistenza umana. Significa riconoscere le ferite del mondo e rispondere con consapevolezza, solidarietà e azioni concrete. La nostra capacità di vedere davvero ciò che ci circonda sembra in declino: abbiamo perso lo sguardo contemplativo, quello capace di aprirci a una visione più ampia, capace di unire tutto e tutti, riconoscendo l’interconnessione profonda tra gli esseri umani e il loro destino comune. 

Oggi siamo in grado di analizzare ogni cosa in modo microscopico, di scomporre il mondo nei suoi elementi più minuti, ma ci sfugge la capacità di cogliere i legami tra le miriadi di creature che popolano l’universo. Senza la luce che trascende la nostra comprensione materiale, vediamo il mondo solo attraverso il prisma del nostro stesso decadimento.

Il grido di Fray Luis è dunque un richiamo a risvegliarci dal torpore, dal vivere “a occhi chiusi”, anestetizzati dalla routine e dall’inerzia. È un appello a rinnovare la nostra coscienza, ad aprirci a una dimensione spirituale che richiede il coraggio di guardare in faccia la sofferenza altrui, e di rispondere con empatia e responsabilità, oltre le dinamiche ideologiche o gli steccati delle appartenenze. Oggi più che mai, è il momento di alzare lo sguardo oltre le divisioni e gli egoismi che ci frammentano, riscoprendo il valore della dignità umana. 

In questo frangente cruciale, alzare gli occhi significa anche riscoprire la speranza, guardare oltre il pessimismo e la rassegnazione. Il risveglio non è solo una presa di coscienza, ma un atto di fiducia: fiducia che l’umanità possa ancora risollevarsi, guarire e trasformarsi, per costruire un futuro più giusto e più umano.

Ecco, questo è su per giù il desiderio che esprimerò quando stasera soffierò le 41 candeline.






























































Lo so ne manca qualcuna per arrivare a 41 ma non sono riuscito a caricarle tutto nel sito.


VIDEO PROFEZIE DI SPERANZA