Francesco Astiaso Garcia ©
Qualche giorno fa, mi è capitato di leggere uno studio aggiornato sulle attuali spese militari a livello internazionale. Immaginavamo un mondo postpandemia meno bellicoso e invece le cose vanno di male in peggio. Le spese militari mondiali hanno raggiunto un nuovo picco, mai toccato dalla fine della Guerra Fredda. Soldi che sono stati sottratti a capitoli di spesa di massima necessità, in un momento i cui l’economia globale sta soffrendo moltissimo.
“Il mondo non è mai stato più minacciato o più diviso, siamo sull’orlo di un abisso e ci muoviamo nella direzione sbagliata”, ha affermato un mese fa il segretario generale dell’ONU, Guterres. Vi ricordate i cartelli appesi alle finestre durante la pandemia: “Andrà tutto bene!!” Sembra proprio che non riusciamo ad imparare dall’esperienza!
Quello che ci manca veramente è l’empatia, la capacità di immedesimazione nelle necessità dell’altro. A tal proposito c’è un significativo midrash ebraico che racconta di un dialogo tra due rabbini, uno chiede all’altro: “mi ami tu fratello?”, “certo che ti amo fratello mio!”, “ma tu conosci veramente quello che mi fa soffrire?”, “no, come posso conoscerlo!”. Conclude il primo: “se non sai cosa mi fa soffrire, non puoi amarmi veramente!”. Amiamo qualcuno solo se conosciamo in profondità le sue sofferenze, le sue angosce, e le facciamo anche nostre calandoci al suo posto. Ma siamo noi veramente interessati alle sofferenze e alle ingiustizie, ci sta a cuore il destino del mondo e degli uomini, o ci importa solo di noi stessi? C’è una bellissima canzone di Leon Gieco che dice: “Solo chiedo a Dio che il dolore non mi sia indifferente e che la morte non mi trovi vuoto e solo, senza aver fatto quanto sufficiente“.
Una cosa è certa: ingiustizia, diseguaglianze e iniquità producono ingiustizia, diseguaglianza e iniquità. A proposito delle catene d’odio e inimicizia, mi ha colpito molto la testimonianza di un giudice penale: “molto spesso le vittime di violenza li vediamo riapparire nelle stesse aule di tribunale come responsabili, a loro volta, di crimini violenti“. Parte della responsabilità di queste disuguaglianze e ingiustizie ricadono certamente sull’intera società che a sua volta pagherà lo scotto. Quando passiamo davanti ad un carcere, ci sfiora il pensiero che anche noi saremmo potuti essere lì, con una storia diversa, se le circostanze della nostra vita fossero state diverse? O pensiamo piuttosto di essere migliori di quelle persone cattive che si sono meritate il loro destino! Magari credessimo veramente di non essere migliori di nessuno!!
A qualcuno potrebbe sembrare antidemocratico e discriminatorio ma le cose fondamentali della nostra vita non sono il prodotto di una scelta: Non scegliamo il luogo dove nascere né i genitori da cui nascere; non scegliamo le doti naturali con le quali venire al mondo o i pesi da portare. Non possiamo slegare l’uomo dalla sua storia, dal suo vissuto dalla sua struttura psichica, dal contesto in cui si trova. Non tutti abbiamo ricevuto la stessa misura, e non a tutti verrà chiesta la stessa misura. Quanta confusione e superficialità quando si parla di merito; una non bene intesa cultura del merito ci spinge a pensare che la realizzazione e il successo dipendano dai propri sforzi. Ma sappiamo bene che non è così! Le conseguenze di questo equivoco sono gravissime perché non solo ci inducono a disprezzare chi porta pesi dei quali non ha nessuna responsabilità, ma ci spinge fino a vantarci di cose per le quali dovremmo metterci in ginocchio con la faccia a terra ringraziando Dio! Quando non riconosciamo più la nostra umanità negli altri, perdiamo anche la nostra.
Un grande artista come De André questo lo aveva capito molto bene; nella canzone “La città vecchia” racconta frammenti di vita di quello strano popolo dimenticato che vive presso le aree più malfamate della zona del porto di Genova: gli ubriachi che sfogano i loro dispiaceri nel vino, le prostitute e i loro clienti, i ladri, gli assassini e «il tipo strano che ha venduto per tremila lire sua madre a un nano». La canzone termina con questi splendidi versi:
«Se tu penserai, se giudicherai da buon borghese li condannerai a cinquemila anni più le spese. Ma se capirai, se li cercherai fino in fondo, se non sono gigli, son pur sempre figli, vittime di questo mondo»
Quello di De André è un meraviglioso invito laico a non giudicare, ad andare oltre le semplici apparenze a cercare l’uomo nel profondo. Lo stesso De André commentando la sua canzone disse: “Io credo che gli uomini agiscano certe volte indipendentemente dalla loro volontà. Certi atteggiamenti, certi comportamenti sono imperscrutabili. La psicologia ha fatto molto, la psichiatria forse ancora di più, però dell’uomo non sappiamo ancora nulla. Certe volte, insomma, ci sono dei comportamenti anomali che non si riescono a spiegare e quindi io ho sempre pensato che ci sia ben poco merito nella virtù e poca colpa nell’errore”.
La sua canzone è dedicata agli ipocriti, ai benpensanti, ai moralisti sempre pronti a giudicare e puntare il dito, a chi si erige a giudice della vita degli altri senza conoscerne le sofferenze profonde, il vissuto e il bagaglio genetico; è dedicata a chi parla di pecore nere dando per scontato di appartenere al gregge delle pecore bianche. Quanto è importante entrare in questo mistero dell’uomo, di ogni uomo, di tutto l’uomo, e in questo senso la bellezza e la poesia giocano un ruolo fondamentale. Papa Francesco ha detto: “Non si può educare senza indurre il cuore alla bellezza…un’educazione non è efficace se non sa creare poeti”.
Come vivere la fraternità senza comprendere l’uomo!
“Cos’è l’uomo perché te ne curi il figlio dell’uomo perché te ne dia pensiero, eppure lo hai fatto poco meno degli Angeli, di gloria e di onore lo hai coronato” dice il Salmo. Magari imparassimo veramente a riconoscere la sacralità di ogni essere vivente, solo allora, una volta riconosciuta la nostra divina somiglianza, saremmo capaci finalmente di toglierci i sandali davanti alla terra sacra dell’altro.