“Quando i mezzi pittorici si sono talmente affinati, talmente assottigliati che la loro capacità di espressione si esaurisce, è necessario tornare ai principi essenziali che hanno formato il linguaggio umano: il coraggio di ritornare alla purezza dei mezzi espressivi”
Avete taciuto abbastanza!
MIGRANTES: dedicato a chi attraversa il mare:
fragili gabbiani senza
porto né ali.
Ho dipinto questo quadro ispirato dalle forti parole di Santa Caterina
da Siena:
“Avete taciuto abbastanza. È ora di finirla di stare zitti! Gridate
con centomila lingue, io vedo che a forza di silenzio il mondo è marcito”.
Il silenzio che lei denuncia non è solo una mancanza di parole, ma una
complicità passiva di fronte al male e al decadimento delle coscienze.
Santa Caterina ci invita a "gridare con centomila lingue", a
diventare voci di cambiamento, a rompere il silenzio dell’indifferenza. Gridare
significa anche difendere la verità. Il mondo rischia di "marcire"
sotto il peso delle falsità e dell’inganno. Gridare significa riscoprire il
coraggio di vivere una vita piena di significato, di bellezza e di verità,
contrastando il nichilismo dilagante. Gridare, per Santa Caterina, è un atto rivoluzionario,
un dovere di chi ha ancora la forza di indignarsi e la volontà di cambiare.
Di fronte al marcire del mondo, mi colpisce il complice silenzio di troppi artisti senza più voce: chi griderà se gli artisti per primi tacciono, si adeguano, si rassegnano! In fondo chi è l'artista se non colui che esce dagli schemi, colui che sa liberarsi da peso della cultura dominante, che sa vivere in proprio rompendo con tutte le convenzioni, le ipocrisie, le gabbie di normalità che gravano come macigni su tutte le società.
Dice una meravigliosa canzone di Horacio Guarany:
"Se tace
il poeta, tace la vita, perché la vita stessa è tutta un canto. Che ne sarà
della vita, se chi canta non alza la sua voce nelle piazze per chi soffre, per
chi non ha alcuna ragione di essere condannato a vagare senza una coperta?"
Nel mondo odierno, questa voce è più necessaria che mai. Con le crescenti disuguaglianze, le migrazioni forzate, le guerre e le ingiustizie sociali, il "cantore" rappresenta chi ha la responsabilità morale di dare voce a chi non ce l'ha. Se tace, il mondo diventa muto, sordo al dolore e cieco di fronte alla sofferenza. Abbiamo bisogno urgente di "cantori", di cuori ardenti e spiriti vivi come Martin Luther King, Santa Caterina da Siena o Aleksey Navalny!
Gridiamo per non essere complici del decadimento del mondo.
Francesco Astiaso Garcia
"Siamo con voi nella notte"
Pochi
giorni fa, per il ventiquattresimo anno consecutivo, mi sono recato a Venezia
per visitare la Biennale d’Arte, quest'anno dal suggestivo titolo “Stranieri
Ovunque”. Tra tutte le mie dodici esperienze alla Biennale, posso affermare
senza esitazione che la visita al Padiglione della Santa Sede di quest’ultima
edizione, è stata quella che mi ha maggiormente coinvolto ed emozionato!
Molto si è discusso sulla decisione della Santa Sede di collocare il suo Padiglione all'interno del carcere femminile della Giudecca, una scelta tanto audace quanto simbolica. Il progetto, intitolato “Con i miei occhi”, ha trasformato le detenute nelle protagoniste dell'opera d'arte, offrendo una prospettiva rara e toccante sul tema della reclusione e dell'inclusione. Questa iniziativa non solo ha sfidato i pregiudizi comuni, ma ha anche evidenziato come l’arte possa essere uno strumento potente di redenzione e riflessione sociale.
“Il
visitatore - spiega il curatore Bruno Racine - è invitato a immergersi in
questa esperienza poetica intensa, privato dei suoi dispositivi digitali e
guidato da detenute formate, affrontando così un viaggio che sfida preconcetti
e apre nuove prospettive sull'arte come mezzo di espressione e connessione
umana”. Se
l'arte è sempre più "parte di un vasto progetto mondiale di
intrattenimento e distrazione", ci auguriamo che nella prigione "le
possa essere restituito il suo potere trasformativo".
Personalmente,
considero questa scelta un'intuizione profetica che restituisce
all'arte il suo luogo più autentico: la vita dell'uomo, con tutte le sue
contraddizioni.
Durante la visita al
carcere, siamo stati accolti in quegli spazi in cui le detenute vivono la loro
quotidianità. Tra questi, quello che mi ha colpito di più è stata la sezione
riservata alle madri con bambini sotto i sei anni. L’immagine è fortemente
contrastante e quasi surreale: scivoli e altalene, simboli di spensieratezza
infantile, si trovavano sotto l’ombra imponente delle alte mura di recinzione.
Non ho potuto far a meno
di pensare ai potenti versi della canzone “La città vecchia” di Fabrizio De
André, un meraviglioso invito laico a non giudicare: «Se tu penserai, se
giudicherai da buon borghese li condannerai a cinquemila anni più le spese. Ma
se capirai, se li cercherai fino in fondo, se non sono gigli, son pur sempre
figli, vittime di questo mondo».
Personalmente ho vissuto la visita in carcere come un invito a cercare l’uomo nel profondo, un'opportunità preziosa per riflettere sul modo in cui gli uomini guardano la realtà e su come invece la guarda Dio. Se dovessi azzardare a dire qualcosa sullo sguardo di Dio vorrei partire proprio da un'immagine poco conosciuta ma davvero straordinaria dell’illustratrice Kristi Valiant dal titolo “Il figlio prodigo”.
Il merito più grande di
questa illustrazione a mio avviso è proprio l'invito universale alla
redenzione che porta alla riscoperta del vero sé, libero dai pesi degli
errori; un invito a riconnettersi con quella purezza che risiede
in profondità in ciascuno di noi, anche quando il mondo esterno vede solo
le cicatrici.
Forse è per questo che
Papa Francesco ha visitato i detenuti ben 18 volte e, per la stessa ragione, ha
voluto collocare il Padiglione Vaticano della Biennale di Venezia all'interno
del carcere femminile della Giudecca, portando l'arte e la cultura proprio in
un luogo dove si sperimentano le forme più dure di esclusione e
privazione. Una cosa è certa: tutti abbiamo bisogno di riscoprire
questo nuovo Sguardo!
Non ci credete? Andate a
vedere "Con i vostri occhi".
Francesco Astiaso
Garcia
LA CRISI DEL DESIDERIO
Sono profondamente convinto che tutte le crisi che stiamo vivendo in questa complessa fase storica rappresentino, paradossalmente, una grande opportunità. Un’opportunità preziosa per riscoprire il senso e la bellezza della nostra vita. Come affermava Victor Hugo: "Ciò che fa notte dentro, può lasciarci le stelle." La notte, con la sua oscurità, può giocare un ruolo decisivo nello svelare all’uomo le profondità della sua stessa anima, richiamandolo alle radici della sua grandezza. È proprio nei momenti di difficoltà che possiamo riscoprire le verità fondamentali della nostra esistenza, ritrovando così quelle "stelle" interiori che illuminano il cammino verso un’esistenza più autentica e ricca di significato.
Il desiderio, infatti, è il segno
tangibile della nostra mancanza di cielo, della nostalgia per una vita più
piena e completa che ogni essere umano avverte in sé. Non a caso, la parola
"desiderio" deriva dal latino "de-sidera", letteralmente
"mancanza di stelle". Questa mancanza ci spinge a cercare qualcosa di
più grande, qualcosa che trascenda l’ordinario e ci conduca verso l’Infinito.
Percepire questa mancanza è di vitale
importanza. La nostalgia di un’esistenza più piena e autentica ci ricorda che
nella nostra vita c'è qualcosa di fondamentale che non può essere colmato con
l'abbondanza materiale. La vera pienezza non si misura in beni, ma in
significati. Uno dei drammi più profondi della nostra epoca è la crisi del
desiderio: non solo la mancanza di desiderio, ma addirittura la perdita della
consapevolezza di questa nostra mancanza di cielo, per usare un ossimoro,
potremmo chiamarla "l'assenza della mancanza d'infinito". Questo
esprime con forza il paradosso del nostro tempo: non solo abbiamo perso il desiderio
di qualcosa di più grande, ma siamo persino inconsapevoli di questa perdita.
Non avvertiamo più il vuoto creato dalla mancanza di un orizzonte infinito,
quella tensione che un tempo ci spingeva a cercare significato e trascendenza.
È un’apatia che non ci priva solo della realizzazione, ma anche della capacità
di desiderarla.
Il problema della denatalità è solo uno
dei riflessi di questa mancanza di desiderio. La mancanza di aspirazione e
proiezione verso il futuro si riflette nella difficoltà sempre maggiore di
pensare ad una vita che vada oltre il nostro individualismo
immediato. Fare figli, dare vita, richiede una profonda intenzionalità, un
impegno verso qualcosa che ci trascende e che durerà ben oltre il nostro tempo.
Tuttavia, quando il desiderio di futuro e di pienezza si spegne, l'idea stessa
di generare una nuova vita perde di significato.
La denatalità, in questo senso, non è solo
un problema demografico o economico, ma una questione esistenziale e
spirituale. Essa riflette la crisi di un mondo che ha perso il contatto con la
propria mancanza di cielo, con il proprio bisogno di pienezza e di
trascendenza. Senza desiderio, senza quella spinta che ci porta a guardare
oltre noi stessi e ad aspirare a una vita più ricca di significato, siamo destinati
a rimanere intrappolati in un circolo vizioso di vuotezza e stagnazione.
Riconoscere questa mancanza, riscoprire il
desiderio come motore della nostra vita, potrebbe essere la chiave per
affrontare le grandi sfide del nostro tempo, verso una vita piena e
intenzionale, capace di una ritrovata creatività vivace, generativa e
partecipativa.
Il Censis ci ha recentemente descritti
come un "popolo di sonnambuli", un’espressione potente che fotografa
la condizione di apatia collettiva in cui sembriamo immersi. Ma come possiamo
risvegliarci da questo nostro torpore? Come scuoterci da un’indifferenza che ci
vede addormentati, proprio mentre gli eventi drammatici intorno a noi
dovrebbero tenerci ben svegli e all'erta?
È proprio qui che entrano in gioco gli artisti.
In fondo, qual è il vero senso del nostro
lavoro? Comporre musica, scrivere poesie, dipingere quadri: tutte attività
apparentemente belle ma non considerate "essenziali". Niente di più
sbagliato! Questo è il pregiudizio radicato nella società, un luogo comune che
riduce l’arte a semplice intrattenimento colto, un accessorio di lusso per chi
può permetterselo. Purtroppo, molto spesso sono proprio gli artisti a
perpetuare questo errore, autoescludendosi dalla dignità e dall’importanza che
li caratterizza.
Fino a quando vedremo l’artista come qualcuno incaricato di dipingere un quadro che si abbini alle nostre tende o al nostro divano, resteremo prigionieri di questo pregiudizio. Ma l'arte è molto di più di una decorazione. Come affermava Henry Miller: “L’arte non insegna nulla, tranne il senso della vita”.
Il contributo dei poeti e degli artisti è
fondamentale in questa prospettiva di risveglio del desiderio e della
motivazione. Come ricordava Antoine de Saint-Exupéry: “Se vuoi costruire una
nave, non radunare uomini per tagliare la legna e assegnare compiti. Insegna
loro la nostalgia del mare vasto e infinito”.
Ecco il cuore della questione: gli artisti
risvegliano in noi la nostalgia del vasto e dell’infinito, la sete di verità,
giustizia, senso e bellezza che alberga in ogni essere umano. Solo quando siamo
toccati da questa nostalgia profonda troviamo la motivazione per costruire la
nostra "barca" e affrontare le sfide immense che la storia ci impone.
L'animo umano è intrinsecamente abitato
dal desiderio di trascendere i propri limiti. La bellezza, con la sua fragile
ma potente presenza, diventa custode di questo desiderio irrinunciabile, un
anelito verso qualcosa di più grande, che l’arte riesce a risvegliare e
nutrire.
Francesco Astiaso Garcia
Alimentata da una spina elettrica, la cera, un tempo simbolo di calore e vita, viene derubata della sua essenza, è l'emblema di una modernità che ha perso il contatto con le sue radici: un oggetto nato per bruciare e illuminare diventa solo un simulacro.
DESPERTAD MORTALES, LEVANTAD LOS OJOS !
Oggi compio 41 anni, e le cose non vanno per niente bene!
Mi riferisco alla folle piega degli eventi che sta trascinando tutti verso un oscuro baratro! In risposta a questa follia generalizzata, ho deciso di dipingere 41 COLOMBE, un gesto simbolico, il mio modo di resistere al non senso e di cercare, attraverso l’arte, una luce che ci guidi verso un futuro migliore.
Il Censis ci ha recentemente descritti come un "popolo di sonnambuli" — un’espressione potente che fotografa la condizione di apatia collettiva in cui sembriamo immersi. Ma come possiamo risvegliarci da questo nostro torpore? Come scuoterci da un’indifferenza che ci vede addormentati, proprio mentre gli eventi drammatici intorno a noi dovrebbero tenerci ben svegli e all'erta?
UN POPOLO DI SONNAMBULI
Forse dormiamo perché abbiamo smarrito la speranza che le cose possano cambiare, e non crediamo più nella nostra capacità di influire sul cambiamento. Così restiamo in disparte, senza speranza né protesta, incapaci di rialzarci e di reagire. Quello di cui abbiamo bisogno è una scossa, una voce forte che ci richiami alla vita, che ci ispiri ad essere più creativi, intraprendenti, vivi.
Una voce come quella del mistico spagnolo Fray Luis de León: “DESPERTAD MORTALES, LEVANTAD LOS OJOS!” – “Svegliatevi, mortali, alzate gli occhi!”. Parole che risuonano oggi con una forza dirompente.
Alzare gli occhi significa non limitarsi a vedere ciò che è immediatamente davanti a noi, ma volgersi verso le vere priorità dell’esistenza umana. Significa riconoscere le ferite del mondo e rispondere con consapevolezza, solidarietà e azioni concrete. La nostra capacità di vedere davvero ciò che ci circonda sembra in declino: abbiamo perso lo sguardo contemplativo, quello capace di aprirci a una visione più ampia, capace di unire tutto e tutti, riconoscendo l’interconnessione profonda tra gli esseri umani e il loro destino comune.
Oggi siamo in grado di analizzare ogni cosa in modo microscopico, di scomporre il mondo nei suoi elementi più minuti, ma ci sfugge la capacità di cogliere i legami tra le miriadi di creature che popolano l’universo. Senza la luce che trascende la nostra comprensione materiale, vediamo il mondo solo attraverso il prisma del nostro stesso decadimento.
Il grido di Fray Luis è dunque un richiamo a risvegliarci dal torpore, dal vivere “a occhi chiusi”, anestetizzati dalla routine e dall’inerzia. È un appello a rinnovare la nostra coscienza, ad aprirci a una dimensione spirituale che richiede il coraggio di guardare in faccia la sofferenza altrui, e di rispondere con empatia e responsabilità, oltre le dinamiche ideologiche o gli steccati delle appartenenze. Oggi più che mai, è il momento di alzare lo sguardo oltre le divisioni e gli egoismi che ci frammentano, riscoprendo il valore della dignità umana.
In questo frangente cruciale, alzare gli occhi significa anche riscoprire la speranza, guardare oltre il pessimismo e la rassegnazione. Il risveglio non è solo una presa di coscienza, ma un atto di fiducia: fiducia che l’umanità possa ancora risollevarsi, guarire e trasformarsi, per costruire un futuro più giusto e più umano.
Ecco, questo è su per giù il desiderio che esprimerò quando stasera soffierò le 41 candeline.
Lo so ne manca qualcuna per arrivare a 41 ma non sono riuscito a caricarle tutto nel sito.